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Carlo Alberto dalla Chiesa, le tre scelte del generale

L’Italia onesta oggi ricorda il sacrificio di un eroico difensore delle istituzioni lasciato solo dallo Stato nella sua ultima battaglia contro la mafia.

La sera di ventisette anni fa, venerdì 3 settembre 1982, fu assassinato in un agguato mafioso il prefetto di Palermo, generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa. Nell’attentato criminale rimasero uccisi anche la moglie Emmanuela Setti Carraro, sposata nemmeno due mesi prima, e il poliziotto Domenico Russo.

Oggi, nel giorno del triste anniversario, vorrei sottolineare in particolare le tre rischiose ma preziose scelte di campo nella carriera del generale-prefetto: la guerra al fascismo, al terrorismo e alla mafia. In difesa della libertà, della democrazia e del primato delle istituzioni. Scelte che, a pieno titolo, lo hanno innalzato a eroe civile, a punto di riferimento per i cittadini.

Molti, spesso, trascurano o non conoscono il suo primo impegno a favore della collettività, quello profuso nella lotta di Liberazione. Si trattò invece di un capitolo fondamentale nella sua vita. In quegli anni, Carlo Alberto dalla Chiesa fu tra gli organizzatori della Resistenza nelle Marche dove, a San Benedetto del Tronto, era sottotenente dei carabinieri. In Emilia collaborò con gli Alleati. Proprio per il suo contributo alla Resistenza ottenne la cittadinanza onoraria di San Benedetto del Tronto ed il trasferimento in servizio permanente effettivo nei carabinieri. Durante l’occupazione tedesca, predispose via mare parecchie partenze di partigiani condannati a rappresaglie, di profughi e di prigionieri inglesi. Minacciato di morte, si aggregò alle bande armate da lui stesso costituite e dirette.
 
Negli anni Settanta è, invece, protagonista nel combattere e stroncare il terrorismo: cattura i fondatori delle Brigate Rosse, Renato Curcio e Alberto Franceschini, e terroristi come Patrizio Peci. Sconfigge l’eversione. Da capo del Nucleo speciale antiterrorismo è promosso a comandante dei carabinieri del Nord Italia, fino a diventare vicecomandante generale dell’Arma nel 1981.
 
L’ultima sua missione è poi quella in terra di Sicilia, contro la mafia. Non è una novità per lui che già due volte era sceso nella Regione: nel 1949 a Corleone con le squadriglie antibrigantaggio contro il banditismo, e dal 1966 al 1973 come comandante della legione carabinieri di Palermo.
 
Nel 1982 verrà mandato nel capoluogo siciliano come prefetto antimafia. Ma senza poteri e senza mezzi, abbandonato a sé stesso dal governo dell’epoca. La mafia lo sfida e cerca di spaventarlo uccidendo il 30 aprile 1982 un parlamentare siciliano, Pio La Torre. Quello stesso giorno egli volerà subito a Palermo, anticipando di alcuni giorni il suo insediamento in prefettura. Attenderà invano, a causa di resistenze politiche, la codificazione di quei poteri operativi di lotta alla mafia che gli erano stati promessi. Nel frattempo non si lascia intimidire dall’assassinio di La Torre, un avvertimento della mafia a lui diretto. Anzi, il giorno dopo risponde riaffermando il valore della legalità.
 
“Se è vero che esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi; non possiamo oltre delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti”, disse infatti con determinazione il Generale il 1° maggio 1982 proprio nel suo primo discorso pubblico da prefetto, durante la cerimonia di premiazione dei maestri del lavoro siciliani. Dunque, Carlo Alberto dalla Chiesa è stato in prima fila sui tre fronti più pericolosi che il nostro Paese abbia vissuto. Schierato dalla parte giusta, sempre a rischio della vita. Che le belve mafiose, quel 3 settembre in via Isidoro Carini a Palermo, non esitarono ad interrompere a colpi di kalashnikov, favorite dall’immobilismo del governo e dalle connivenze mafiose della politica.

 
Ecco perché è importante rendere omaggio alla figura del Generale: per riconoscenza nei suoi confronti e perché sentiamo nostalgia di persone carismatiche e di fedeli servitori dello Stato come lui. Basterebbe sapere soltanto di alcuni suoi gesti, di alcuni suoi comportamenti, per capire la stoffa dell’uomo. Come quando restituì una borsetta di coccodrillo ad un industriale che questi aveva inviato alla moglie del Generale in occasione di una festività, giustificandosi: “Non la possiamo accettare”. O come quando rifiutò un impiego in un’azienda privata dove avrebbe ricevuto una paga tre volte superiore: respinse l’opportunità perché “non sono un mercenario”, affermò.
 
Questo era Carlo Alberto dalla Chiesa. Tutto un altro spessore rispetto a coloro che oggi, senza ritegno, fanno meretricio degli incarichi pubblici che ricoprono.
Nell’Italia del malaffare, dell’illegalità, dei diritti negati, della Costituzione calpestata, delle collusioni tra mafia e politica, dei condannati per mafia eletti perfino in Parlamento, ricordare il generale Carlo Alberto dalla Chiesa non appartiene allora alla retorica ma ad un obbligo morale. Il suo esempio ci aiuta a prendere coscienza di quale livello, oggi, il nostro Paese ha purtroppo raggiunto. Ci soccorre, come una bussola, per indicarci la strada giusta.
 
Il figlio Nando, nell’autobiografia del Generale curata dodici anni fa, rammenta: “Ho visto, devastata dalle pallottole, la busta del suo ultimo stipendio, riscosso il giorno che l’hanno ammazzato, unmilioneottocentomila lire, dopo quarant’anni e ai massimi livelli della responsabilità e del rischio. Il fatto è che egli non ha mai pensato, nel momento del rischio, all’ammontare del suo stipendio. E’ morto per le genti d’Italia, in nome del popolo italiano”.
 
Carlo Alberto dalla Chiesa, piemontese, uomo del Nord (nacque nel 1920 a Saluzzo, in provincia di Cuneo, da una famiglia di origine emiliana), andò ovunque vi fu bisogno di lui, delle sue capacità, della sua esperienza, dei suoi utili strumenti investigativi. Per difendere lo Stato, i cittadini. A Milano, Torino, Firenze, Roma, Palermo. Su e giù per la Penisola. Non indietreggiò mai ogni volta che le istituzioni ed il senso di responsabilità lo chiamavano, accettando di recarsi fino nel profondo Sud dove ha testimoniato, sino alla morte, l’amore “ai fratelli italiani”, proprio come recita la famosa preghiera del carabiniere dedicata alla Virgo Fidelis.
Anche questo aspetto, oggi, può forse insegnarci qualcosa.
 
L’Italia onesta, perciò, non può dimenticare il 3 settembre 1982 e non lascerà mai solo il suo eroe.
Ancora una volta grazie, Generale.

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