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Carcere e lavoro. Britannia docet

Il 5 ottobre scorso il Segretario di Stato per la Giustizia del Regno Unito, Ken Clarke, ha avanzato l’ipotesi che i detenuti dovrebbero lavorare 40 ore a settimana, retribuiti con salario minimo, per risarcire con i loro guadagni le loro vittime.

Sul frontespizio dell’edizione datata 1765 de’ "Dei delitti e delle pene" di Cesare Beccaria vi è rappresentata la personificazione della Giustizia che respinge il boia che le offre le teste dei rei, mentre ai piedi di lei giacciono gli arnesi da lavoro, ad indicare che la pena va espiata con il lavoro. Il segretario Clarke, liberal democratico, esponente del neo governo conservatore, ha certamente pensato la cosa anche per chiari motivi elettorali: ora che loro sono al potere, intendono restarci. Tuttavia, la cosa, anche se sarà difficile vederla attuata a breve, ha suscitato il mio interesse per una breve riflessione.

A pensarci bene, è cosa vera che i lavori forzati siano una forma di schiavismo, ma è altresì vero che chi è vittima di crimini spesso rimane “schiavo” a vita del risentimento, del disagio, del dolore, dei traumi e quant’altro provocati dal delitto subito ad opera di uno o più criminali. Si pensi alle vittime di mafia, a coloro che si sono visti ammazzare figli, mariti, fratelli, alle vittime del racket del pizzo e dell’usura, che si sono visti spolpare i loro patrimoni da gente senza scrupoli, alle vittime di rapine e furti, di stupri, a quelle della pedofilia… la lista potrebbe continuare purtroppo.

Quasi sempre, tutta questa gente, alla quale è stata letteralmente annientata l’esistenza, non vede il becco di un quattrino di risarcimento, pur essendo stati condannati gli autori dei crimini commessi contro di essa. È vero che in molti casi il risarcimento non potrebbe mai risarcire il danno; cito ad esempio l’omicidio o lo stupro, ma è altresì vero che per le persone rovinate dagli usurai o dal racket la situazione potrebbe essere ben diversa.

Il lavoro forzato attuato in modo inadeguato e senza rispetto per la persona è certamente cosa non attuabile in nessun caso, ma il lavoro “obbligato” svolto nel pieno rispetto delle regole e dei diritti umani come espiazione della pena e risarcimento del delitto può esser realmente una soluzione – chiaramente in parte - a molti problemi del mondo carcerario e dei crimini ad esso connesso, oltre al fatto che, in alcuni casi, si troverebbe anche un certo corrispettivo di natura pratica e pecuniaria al delitto commesso. L’idea di Ken Clarke ha varie sfumature ed alla base varie riflessioni, tra queste ultime spicca il fatto che i detenuti nel Regno Unito, nella stragrande maggioranza dei casi, sono costretti a pene in cui la noia e l’ozio forzato portano ad un peggioramento della loro già distorta percezione della società, ergo, quando escono dalla galera tornano spesso a commettere crimini.

La cosa è lungi dall’essere dissimile da quella di casa nostra sotto questo punto di vista, anzi, nelle nostre carceri la situazione è ben peggiore. Da ciò si evince che il sistema carcerario fallisce nel recuperare alla società i criminali. Il problema quindi è doppio: da un lato c’è il criminale che non viene recuperato, dall’altro c’è la vittima che ha, in parte o in toto, la sua esistenza distrutta o grandemente disagiata a causa del crimine subito.

Più volte nei miei articoli ho parlato di Stato di diritto a macchie di leopardo in Italia, ma soprattutto nel Meridione; forse, per incominciare a risolvere tale problema bisognerebbe forse partire proprio da una riforma del modo di espiare la pena e del sistema carcerario; quest’ultimo andrebbe ampliato, rendendolo atto ad accogliere e a far lavorare i suoi detenuti in modo che essi possano impiegare il loro tempo in modo costruttivo e produttivo. Non è affatto detto che il detenuto debba essere privato di tutto il guadagno del suo lavoro per risarcire le vittime, la maggior parte del netto dovrebbe esser devoluta come risarcimento alla vittima del crimine commesso dal lavoratore-detenuto, ma, nel caso di pene per piccoli e medi reati, si potrebbe, per parte dell’imponibile lordo guadagnato, optare per contributi previdenziali e per la creazione di una cassa da dove attingere nel caso il detenuto, una volta estinta la pena, non riuscendo a reinserirsi nel mondo del lavoro, possa trovare un piccolo contributo al proprio disagio. In tutto ciò emerge altresì che tale lavoro sarebbe soggetto a tassazione facendo aumentare anche l’entrate fiscali. È chiaro che qui si apre la discussione a chi bisognerebbe dare in usufrutto tale forza lavoro, ma con attente e ponderate analisi la cosa potrebbe, qualora ci fosse la volontà, essere risolta.

Le idee e le applicazioni di tali proposte potrebbero essere molteplici. Per esempio, chi ha commesso crimini non efferati potrebbe lavorando a risarcimento delle sue vittime aver condonata parte della sua pena

Si pensi a criminali dediti al racket o a truffatori e quant’altro, ai quali viene imposto di scegliere tra una pena a 20 o 25 anni di carcere o una di 13, 15 purché lavorino 8 ore al giorno per risarcire le loro vittime.

Certo, ci sono anche casi dove non basterebbero 10mila vite per risarcire il danno fatto, tale è l’entità del danno e il numero dei danneggiati, ma il principio tornerebbe utile. Si pensi al mafioso che dovrà lavorare tutta la vita da ergastolano a rimborsare le sue vittime da un lato e a mantenere la sua famiglia dall’altro. Non sarebbe male dopotutto vedere esponenti della mafia o del racket del pizzo sgobbare per le loro vittime. Questo sì che sarebbe un bel modo per fare giustizia!

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