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Captain fantastic, di Matt Ross

Captain Fantastic è un film fantasioso e anche abbastanza divertente di Matt Ross. Si regge sulle sue canzoni, sui paesaggi, su qualche avventura, sul libro da cui è tratto, sul carisma di Viggo Mortensen, bel padre educatore di bambini come nel magnifico The Road. E’ fantasioso perché, per l’importante scopo di dimostrare i nonsense della ns. società evoluta e appesantita, presuntamente istruita dal suo sistema scolastico, ambienta una famiglia composta da padre e 6 figli, ragazzi e bambini tra 5 e 17 anni, in un bosco delle montagne del nord America, a metà tra Into the Wild e Educazione Siberiana.

Papà li alleva come in una piccola “repubblica di Platone”, così voleva pure la mamma, che ora è morente in un ospedale là in basso, in una evoluta città. Tutto viene messo ai voti ma non si esce dalla ferrea disciplina imposta dal padre, le sole parole non sono ammesse in questa casa, tutto va dimostrato e argomentato. Scalate in montagna e corse mattutine come dei piccoli militari risvegliati dalla sirena, e lo studio da cui non si può derogare, libri che ne fanno dei piccoli mostri di saggezza, al punto da renderli ragazzini capaci di ripetere alti concetti politici con risposte sempre pronte, tipo I potenti controllano la vita dei deboli e Potere al popolo, abbasso il sistema. La piccola repubblica è autonoma e autarchica, vive di caccia; coltelli e pugnali il padre regala ai figli, e non manca l’investitura a “uomo” del ragazzo più grande quando uccide il suo primo cervo.

Il viaggio verso la città per visitare la mamma in ospedale, con un vecchio pullman che possiedono, è l’occasione per confrontarsi con una confusa società moderna ed “efficiente”, uno scontro tra civiltà. Fa osservare ai ragazzi e allo spettatore una certa assurdità del business americano o globale, lo shopping nei centri commerciali come interazione sociale e opportunità di ritrovo, una civiltà grassa e malata che mangia soprattutto cibi in scatola. E allora quale miglior diversivo che compiere missioni cibo libero in qualche supermercato, altrove conosciuti come “espropri proletari”? La famiglia della zia che li ospita in città è esemplare quanto a scarsa cultura dei suoi due figli, più dediti a giochi virtuali su smartphone e home-theater, a scarpe Nike e Adidas; questa zia e il marito proteggono i loro figli dalle parole impegnative e dalla descrizione realistica dei fatti a cui i “wild” sono invece abituati, cresciuti con le azioni più che con le parole.

Anche il funerale della madre sarà evento memorabile per misurare la distanza tra i riti e parole di circostanza di queste occasioni e una sepoltura vera e naturale che poi i ragazzi col loro papà compiranno. Le religioni, papà dice, sono favole inventate (che del resto giustificano riti ripetuti per abitudine, oltreché le violenze del Silence di Scorsese). Al funerale della moglie papà Mortensen si presenta con un abito rosso da rockstar e i bambini agghindati con maschere di ispirazione boschiva: un pugno nello stomaco per i fedeli osservanti. Le parole ribelli e veritiere che pronuncia in un’imprevista orazione funebre fanno inorridire quei fedeli compunti.

La casa dei nonni è secondo questi ragazzi ostentazione di ricchezza volgare, con tutto quello spazio. Questo soggiorno rende però i figli coscienti di altre cose che ci sono da vivere, l’amore e gli sguardi giovanili ad esempio, al punto da rimproverare al padre di essere diventati mostro per colpa tua, del mondo non so niente, a meno che non sia scritto su un cazzo di libro. Il più grande ha tante lettere di università americane che lo ammetterebbero ai loro corsi, era stata la madre a inoltrare le domande di ammissione, la sua cultura probabilmente supera quella di tutti gli studenti iscritti.

Il papà riparte solo nel suo pullman-casa viaggiante. Ma i figlioli, viene rivelato alla fine delle due ore, vorranno allontanarsi da quella civiltà e tornare a casa, tra i boschi. Il più grande partirà invece per il Kenya. Come nelle migliori favole americane l’amor di padre prevale sulle sirene del mondo “evoluto”.

Commenti all'articolo

  • Di Marina Serafini (---.---.---.140) 25 luglio 2017 00:39
    Marina Serafini

    Sono rimasta piuttosto intrigata da questo film. Non credo si tratti solo dell’amore di padre che "americanamente" vince... Credo ci sia la forza della natura che si scontra con la castrazione del sociale e del politically correct proprio della cultura "civile"... Gli stessi ragazzi sentono il fascino del sociale, degli agi, ma si tratta di un mondo così innaturale da spingerli a rinunciarvi, nonostante la tentazione. Il confronto con i cugini e’ illuminante. Cosi come lo e’ il confronto tra i due funerali celebrati ( in chiesa e in natura). Il padre fa il Padre e trova la mediazione necessaria a garantire ai suoi figli di non vivere una realtà asociale da disadattati. Continua ad allenare i ragazzi alla vita secondo un modo naturalistico, ma al contempo fa loro frequentare la scuola, li mette in condizione di interagire con la società. Per imparare, perché non diventino davvero "dei mostri". Mi sembra un film piuttosto istruttivo.

  • Di Angelo Umana (---.---.---.9) 25 luglio 2017 03:13

    Ha detto molto bene Marina. L’ho definito fantasioso perché è gioco-forza chiedersi, vedendolo, se la famiglia rappresentata è possibile, riflettere se possa esistere in qualche foresta una famigliola che vive così, rifuggendo le false sirene della presunta civiltà pure se ci rendiamo conto di quanto l’uomo ’progredito’ si sia allontanato dalla natura e ne abbia invece forzato i ritmi, sfruttandola di molte più risorse di quanto essa possa dare. Si constata poi quanta e quale cultura è contenuta nel modo di vivere o nel comune sapere delle ns città organizzate e nel vivere definito efficiente.

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