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Black Keys e Ray LaMontagne, o dell’american pop che si rinnova ricalcando la tradizione

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Presento due dischi che in termini di contenuto musicale e stilistico confermano, sia pure in modo non dichiarato e con uno sguardo al passato e uno rivolto al futuro della musica americana, che anche nell’ambito della rock music quale espressione artistica popolare è giusto perseguire la ricerca di nuove modalità espressive, di significati e linguaggi di nuova sperimentazione e obiettivi artistici di continua innovazione da raggiungere non solo sul piano della scrittura musicale e lirico-letteraria delle canzoni ma anche su quello più attinente alle tecnologie utilizzate nell’ambito delle registrazioni (ad esempio: la ricerca di particolari sonorità attraverso l’utilizzo dei diversi strumenti musicali, specie quelli elettrici tipici del rock e/o, a certe condizioni, delle prestazioni fornite dalle più incredibili attrezzature elettroniche di studio).

Gli elementi focali di tale ricerca, qui, riguardano il mantenimento della tradizione musicale americana con mezzi nuovi e rinnovate modalità espressive.

Il primo dei due dischi, del gruppo statunitense dei Black Keys, si intitola semplicemente Brothers ed è stato pubblicato nel 2010, il secondo, dal titolo God Willin’ & the Creek don’t rise, sempre del 2010, è di Ray LaMontagne, cantautore anch’egli americano originario del New Hampshire, dove è nato nel 1973.

Tra le innumerevoli e più o meno ‘recenti’ uscite discografiche americane ugualmente proponibili ho scelto Brothers e God Willin in quanto esempi notevoli di rock made in USA posizionabili sulla direttrice a suo tempo percorsa da cantanti e gruppi che ancora oggi costituiscono lo zoccolo duro di tradizioni come quella del Country folk tipico delle praterie e quella più chiassosa e sfavillante del Blues e del R & B..

Mi è parso di intravedere, anche tra i solchi di Brothers e di God Willin’ & the Creek don’t rise, un robusto desiderio di rinnovamento da parte degli artisti considerati: nel linguaggio, nel suono, nei contenuti delle liriche (i tempi cambiano, le culture e le esigenze dei popoli si evolvono continuamente, eventi nuovi e sempre diversi si avvicendano influenzando il modo di intendere, tanto per dire, l’amore o, eventualmente, l’impegno sociale e politico degli autori di canzoni ispirando più o meno direttamente il contenuto dei testi delle canzoni stesse) e finanche (in questo caso, direi, soprattutto) nell’utilizzo della tecnologia che talvolta può consentire di ottenere sonorità che credevamo consegnate definitivamente alla storia della discografia. In questo sta il pregio e anche la relativa originalità di dischi come quelli che nell’articolo vengono presi ad esempio. Ogni estetismo fine a se stesso, in essi, viene tenuto a distanza, sia pure in maniera non esplicita. I due lavori rielaborano, rinnovandolo sotto diversi aspetti, stilemi di un cospicuo patrimonio musicale popolare, quello degli Stati Uniti, che di conseguenza, indubitabilmente, si arricchisce di sonorità e di suggestioni nuove; lo fanno peraltro positivamente in anni in cui, tra l’altro, la tecnologia la fa da padrona in tutti i campi e viene spesso utilizzata come strumento fine a se stesso.

                                        

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Attivi fin dal 2002 (il loro primo disco si intitolava The Big come up) i Black Keys provengono da Akron, piccola cittadina industriale dell’Ohio, nord degli States, anche patria dei Devo, gruppo fondamentale di new wave che ebbe larga fortuna negli anni Settanta del Novecento ancora oggi attivo sullo scenario della rock music internazionale. Il duo è costituito da Dan Auerbach, chitarrista, essenzialmente, e cantante, ma anche principale artefice del particolare sound dei Black Keys e autore di un ottimo disco solista uscito nel 2009 intitolato Keep it hid , e Patrick Carney (batteria).

Un organico minimale per una band che suona una musica dai toni vintage in apparenza non troppo elaborata. Un attento ascolto di essa rivela la puntuale e laboriosa ricerca effettuata dai due dell’Ohio di un suono che riporta chi ascolta i dischi dei Black Keys alle origini del rock americano. Numerose le chitarre, anche d’epoca, tra le quali una Telecaster e diverse Gibson, Ibanez e Rickembacker utilizzate da Auerbach per ottenere le sonorità tipicamente Sixties presenti nei brani contenuti nei vari dischi del gruppo finora usciti.

I dischi dei Black Keys la dicono lunga sul background musicale di cui dispongono Auerbach e Carney: in un originale unicum che è la risultante di una miscellanea sapiente di elementi eterogenei, bluesacci elettrici suonati da chitarre inacidite come quelle che si ascoltano nell’ambito del vastissimo repertorio del Delta blues più tradizionale e in quello del più recente rock psichedelico di San Francisco; per altri versi, si trovano nel disco anche brani lenti che rivelano una perfetta assimilazione, da parte dei due di Akron, della lezione musicale e canora impartita da maestri della Soul music come Otis Redding e Wilson Pickett.

Tra i brani di ‘Brothers’: Everlasting light è un pezzo dall’andamento vagamente techno, ipnotico specie in finale, caratterizzato da linee guida minimali di basso e chitarra elettrica e impreziosito da intermittenti rifiniture vocali. ‘Lascia che io sia la tua luce eterna’, canta Dan, che nel brano di apertura di Brothers fornisce un’ottima prova delle doti canore che gli consentono di ricalcare in modo convincente il falsetto dei maestri del R & B americano degli anni Sessanta; Next girl – Sonorità nostalgiche anche per questo blues certamente carico di fascino per via della sua timbrica old style; Tighten up, un brano davvero magnifico all’interno del quale lo scintillante impianto R & B volge in finale verso cadenze e ritmiche più decisamente rock;

Howlin’ for youShe’s long gone, ancora due acid blues, stavolta, però, più vicini a canoni espressivi che hanno segnato anche il modo di suonare il blues di gruppi come Led Zeppelin e Cream. I restanti brani si attestano sullo stesso livello qualitativo dei precedenti e continuano a proporre all’ascoltatore variegate impressioni musicali che vanno dal blues al r&b alla soul music, al rock, naturalmente, e al sound west coast.

 

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Ray LaMontagne è autore di quattro dischi, il primo e il terzo dei quali, cioè Trouble, uscito nel 2004, e Gossip in the Grain del 2009, assai apprezzati da critica e pubblico. Anche God Willin' & The Creek Don't Rise ha ricevuto giudizi assai lusinghieri, tra gli altri, da parte di colleghi di Ray (la leggendaria folksinger statunitense Judy Collins, ad esempio) e di rispettabilissime riviste inglesi quali UNCUT e MOJO. Proprio MOJO ha parlato del disco di LaMontagne come di “un lavoro di semplice forza; un disco che è sopravvissuto ai pericoli della strada per la stabilità con tutte le sue qualità emotive intatte”.

Il disco va ben oltre il classico schema americano cantautorale.

Tra le varie canzoni Repo man, lungo brano introduttivo, sembra ripercorrere il solco tracciato a suo tempo dai protagonisti del rock ‘sudista’ più vicini al blues (gli Allman Brothers, tanto per fare un nome). Ai riffs di chitarra elettrica e alla inconfondibile ritmica ‘southern’ si aggiungono, a completare in modo eccellente l’impianto di una canzone dall’incedere splendidamente ‘Seventies’ , le suggestive timbriche vocali di LaMontagne; New York City’s killing me e God Willin & the creek don’t rise sono brani che si muovono, con tanto di luccicante steel guitar, all’interno del sentiero tracciato dalla più genuina tradizione del cantautorato Folk e Country & western americano. Peraltro, il secondo dei due e quello successivo (Beg, steal or borrow)  appaiono sospesi nella stessa atmosfera west coast che si respira nelle canzoni di un David Crosby d’annata o in quelle di un Tim Buckley. Ad ulteriore conferma di quanto si sostiene Like Rock’roll Radio, brano dove si ha l’impressione di ascoltare il buon vecchio Neil Young accompagnato unicamente dai suoni della chitarra acustica e dell’armonica.

 

 

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