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Basta falsità e omissioni contro WikiLeaks

Sul volume monografico di Aspenia dedicato a Media 2.0, Potere e Libertà, John C. Hulsman (pp. 119-125) parla della «tragedia di WikiLeaks». Ossia di come la «giusta critica» di Julian Assange alla scarsa trasparenza dei governi abbia finito, tramite azioni «sbagliate» e «sconsiderate» dettate dalla sua «purezza morale ultraterrena», per rivelarsi controproducente proprio per la causa della trasparenza.

WikiLeaks e Assange non sono certo esenti da difetti e da errori, e l’ho più volte scritto (per esempio, su Libertiamo). Tuttavia trovo che il pezzo di Hulsman riassuma perfettamente alcune omissioni e falsità tipiche di un certo racconto ‘mainstream’ della vicenda. Una sorta di «manuale di delegittimazione» (involontario?) che va, a mio avviso, a sua volta delegittimato. Cercherò di farlo decostruendo e criticando, passaggio per passaggio, i punti più rilevanti del pezzo.

1. Scrive Hulsman che Assange

«[...] oggi si nasconde nella casa di un suo sostenitore in Inghilterra, impantanato in infinite cause legali (tra cui quella dell’estradizione in Svezia per un’accusa di molestie sessuali) [...]».

Ma Assange non «si nasconde» a Ellingham Hall, nella casa del fondatore del Frontline Club, Vaughan Smith: vi risiede agli arresti domiciliari dal dicembre del 2010. Trecentocinquanta giorni circa in cui è stato seguito dalle telecamere e da un braccialetto elettronico che ne mappa istantaneamente tutti i movimenti. Altro che «nascosto»: le autorità sanno in ogni momento dove si trova. Come Hulsman di certo sa, poi, Assange non ha subito alcun processo né ha ricevuto alcuna incriminazione formale, finora. Da ultimo, non sono a conoscenza di «infinite cause legali» in corso contro Assange; lo stesso Hulsman potrebbe specificare di che sta parlando. A quanto mi risulta, il problema sono le accuse di molestie sessuali. Quanto al resto delle cause, finora WikiLeaks non ne ha mai persa una.

2. Riguardo alla pubblicazione dei 250 mila cablo della diplomazia americana, iniziata il 28 novembre 2010 e terminata con la complicata vicenda che ha portato alla diffusione integrale dei documenti senza interventi editoriali, Hulsman scrive:

«A quanto si sa, i giornalisti del Guardian hanno faticato a convincere Assange a non divulgare i nomi e gli altri dettagli delle fonti straniere, le cui vite, altrimenti, sarebbero state messe in pericolo».

Già in questo passaggio Hulsman dimentica di citare il fatto che perfino le autorità statunitensi hanno fortemente ridimensionato i potenziali rischi per gli informatori. Oltre, naturalmente, a dimenticare che finora non si è a conoscenza di alcuna perdita di vite umane dovuta a documenti pubblicati da WikiLeaks.

«Alla fine, Assange si è convinto e ha oscurato i nomi, salvo poi svelarli in un secondo momento, commettendo un enorme errore intellettuale e morale».

Quale? L’autore lo spiega due pagine dopo:

«Dopo il clamore suscitato dalla pubblicazione dei cablogrammi, le cose hanno iniziato a girare male per WikiLeaks e Assange».

(Per inciso: vero, ma sarebbe doveroso ricordarne le ragioni. Ossia un blocco bancario illegale imposto da quasi un anno che ha falcidiato – secondo fonti dell’organizzazione – il 95% dei fondi di WikiLeaks e condotto alla sospensione delle pubblicazioni; un’ondata di delegittimazione basata sul nulla che si è spinta fino alla pronuncia di minacce di morte per Assange in diretta televisiva; i già precedentemente dimenticati 350 giorni di arresti domiciliari per le accuse di molestie sessuali; e, certo, i dissidi interni. Del cui peso tuttavia non è dato sapere, visto che l’impatto si è verificato sostanzialmente in concomitanza con le altre concause). 

«Quest’ultimo (Assange, ndr), infatti, ha lasciato che in rete girassero diverse copie dell’archivio contenente tutti i cablogrammi, con una sola password per accedere a tutto il pacchetto. La password Assange l’aveva data a David Leigh, un giornalista del Guardian, perché la custodisse nel caso gli fosse accaduto qualcosa (un timore melodrammatico da cui Assange sembra ossessionato)».

Vero, ma sentire un commentatore televisivo auspicarsi che qualcuno «spari illegalmente a quel figlio di puttana» non aiuta, caro Hulsman. Né i preparativi per una incriminazione per spionaggio. Ma l’autore glissa, e prosegue:

«Con grande stupore e costernazione dei cinque quotidiani con i quali aveva collaborato inizialmente, questa volta Assange non si è preso la briga di oscurare i nomi delle fonti [...] e neanche i numeri di telefono privati dei leader stranieri. Quella che era iniziata come una crociata per la trasparenza è completamente degenerata, dimostrando una evidente incapacità di comprendere come funzioni il mondo moderno».

Ancora: vero, la degenerazione c’è stata. E la pubblicazione priva di interventi editoriali è un fatto esecrabile. Tuttavia, a dimostrare «una evidente incapacità di comprendere come funzioni il mondo moderno» non è certo Assange, ma chi ha pubblicato la password dell’archivio con i 250 mila file. Ho già spiegato nel dettaglio le ragioni di questa mia posizione nel post Cablegate 2, non è colpa di WikiLeaks, che – pur online dal 5 settembre – non ha ricevuto alcuna critica nel merito, né tantomeno ha portato alla luce alcuna argomentazione che corrobori l’ipotesi di Hulsman e della quasi totalità dei ‘media tradizionali’. Abilissimi nell’alzare un coro di voci sdegnate, molto meno abili a tradurre gli strepiti in argomenti. Senza contare che il pacchetto non poteva certo essere modificato con interventi per cancellare i nomi sensibili, una volta aperto, prima di venire messo in rete. Altro che «avventata diffusione» dei documenti, dunque.

In conclusione: sacrosanto un approccio critico al caso WikiLeaks, che presenta non pochi elementi problematici. Tuttavia, caro Hulsman, se qualcuno «ha danneggiato, e in maniera grave, la giusta causa di un governo più trasparente», ben più di Assange, sono i giornalisti che invece di considerare la vicenda in tutta la sua complessità hanno preferito delegittimare WikiLeaks e il suo fondatore a suon di articoli infarciti di mezze verità e omissioni. Non ultima quella riguardante Bradley Manning, la presunta fonte dei documenti più scottanti (anche se per Hulsman, tutto sommato, non è che dicano chissà che). Il 16 dicembre inizia il suo processo, nel silenzio dei media italiani e dopo oltre 500 giorni di prigionia – di cui buona parte trascorsi in condizioni non consone a una democrazia. E se fosse questa, la vera «tragedia»?


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