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Barra dritta, rotta sbagliata. Un paese senza guida nella tempesta

L’insostenibile leggerezza dell’essere Berlusconi: il fattore Silvio e il costo delle mancate scelte nella crisi internazionale.

Siamo in una bolla d’ipocrisia. Al tavolo tra governo e parti sociali, prima ancora della conferenza stampa di avant'ieri sera, nessuno credo possa davvero aver pensato che B. fosse un interlocutore credibile. Men che meno l’uomo in grado di dare ai mercati le rassicurazioni richieste, affrontando i nodi da lungo tempo irrisolti che, mentre frenano la crescita dell’economia italiana - che, senza essere la terza al mondo, ha però il terzo debito pubblico -, ci espongono a una pressione della speculazione internazionale crescente. Non che non avessimo avuto il tempo di intervenire: non era affatto impossibile prevedere che, dopo Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, sarebbe toccato a noi.

Nel frattempo, però, la situazione internazionale è così peggiorata che i mercati hanno finito per colpirci violentemente. Nelle istituzioni internazionali, nonostante il copione obbligato delle reiterate rassicurazioni, cresce la consapevolezza che siamo sull’orlo del baratro, per cui si pesano le parole e ci si muove con estrema cautela. Il rischio è che si cada tutti assieme, e rovinosamente, data la grandezza dell’economia italiana e la stretta interdipendenza dell’economia mondiale. Il governo ha fatto troppo a lungo finta di niente, certo che la buriana sarebbe passata, salvo poi esser stato di fatto commissariato dalla BCE che, su impulso delle amministrazioni Obama e Merkel, si è impegnata a sostenere il corso dei BOT. Ma a precise condizioni che, è facile prevedere, di faranno via via più stringenti.

Se è forte la paura che l’evidente inazione dell’esecutivo possa costarci carissima, è altrettanto chiara la consapevolezza che senza una exit strategy, in mancanza cioè di un’alternativa già pronta (una crisi pilotata quindi), è molto rischioso attaccare il governo. Molti si mordono la lingua. Se però è vero che abbiamo un debito enorme, è altrettanto vero che la sua durata media è di 7 anni e che, se gli spreads coi bund tedeschi non aumenteranno ulteriormente (il termometro più attendibile della fiducia nell’affidabilità dei nostri conti), a garanzia degli investitori sulla solvibilità dell’Italia vi è il fatto che già da quest’anno il paese avrà un avanzo primario, sia pur minimo.

Ma tante sono le variabili, specie internazionali, e a tenere il Belpaese a galla non saranno certo le modifiche alla Costituzione. Le quali, peraltro, nella migliore delle ipotesi, prenderebbero 9 mesi prima di diventare esecutive. E non è certo l’articolo 41 il freno alla crescita. Tecnicamente, si diceva, la situazione non è così drammatica, nonostante la chiara sottovalutazione governativa del rischio. Se poi consideriamo che l’Italia non ha dovuto, come invece fatto da altri paesi anche europei, salvare un sistema bancario internazionalmente ritenuto solido e che il livello di indebitamento privato è alquanto basso anche rispetto a paesi dalle finanze statali migliori, appare evidente che, se i numeri sono stressati, e non da ieri, la crisi è essenzialmente di fiducia.

Di mancanza di fiducia. In chi, in evidente stato confusionale, si trova al timone nella tempesta finanziaria, certo, ma anche nella possibilità dell’Italia di risolvere i suoi ormai atavici problemi. La crisi è mondiale, certo, ma i mercati, che si accaniscono sugli stati giudicati più fragili, sono in attesa di segnali inequivoci. Anticipare i tagli di una manovra elettorale che tagliava soprattutto al 2014, oltre la legislatura quindi, rappresenta un segno che si è capito il problema e si danno delle risposte immediate sui saldi. Della scelta delle voci da tagliare, tutta politica, la responsabilità è del governo e di nessun altro. Vi è poi l’annoso problema della crescita asfittica di cui il paese soffre da vent’anni circa, problema a sua volta intimamente legato all’enorme fardello del suo debito.

Anticipare i tagli della manovra, aumentando da subito l’avanzo primario, garantisce un più rapido rientro del debito entro livelli più sostenibili e si spera possa calmare nel breve i mercati. Dandoci il tempo di intervenire sulle riforme strutturali che sono ben note, senza però cambiare sostanzialmente le condizioni della finanza pubblica. Fino alla prossima crisi in cui ci ritroveremmo in una situazione analoga a quella in cui ci troviamo in questi giorni. In passato ci si è guardati dal prendere le necessarie misure, impopolari nel breve termine, potendo prendere la strada più comoda e apparentemente indolore della svalutazione  Deprezzare la valuta per rilanciare le esportazioni. Questa ricetta non si può più applicare, siamo nell’euro. Che non gode di buona salute e ci si interroga se non sia stata una follia adottare un’unica moneta senza un governo dell’economia se non comune, almeno più coordinato. Ma tant’è. Le soluzioni si cercheranno una volta superata l’emergenza.

Al già richiamato tavolo con le parti sociali si è assistito a una scena senza precedenti: le associazioni rappresentative di tutto il mondo economico e sociale, nessuna esclusa, che chiedevano misure coraggiose e tempestive e il governo che, al contrario, minimizzava la portata della crisi, rimandando i provvedimenti a dopo le ferie, a settembre inoltrato. La reazione dei mercati è stata tale che il premier ha dovuto fare immediatamente marcia indietro, sollecitato dai leader mondiali che temono a ragion veduta il contagio. L’Italia, proprio come Lehman Brothers, non è too big to fail, ma, al contrario, troppo grande per essere salvata. È a rischio fallimento, come ci ha ricordato ancora un paio di giorni fa l’uomo che predisse la crisi dei subprime, Nouriel Roubini, fine conoscitore del nostro paese.

Servono misure coraggiose. Se sono noti i mali, lo sono altrettanto le cure. In questi ultimi vent’anni il peso dei sacrifici è stato in gran parte sostenuto dai ceti meno abbienti, è ora di riequilibrare drasticamente onori ed oneri. Il consumatore, nel nostro sciagurato paese, vive la singolare condizione di essere soggetto a tutti gli inconvenienti di una economia di mercato, senza però goderne i vantaggi. Una situazione, questa, evidentemente non più sostenibile. Meglio a questo punto un sistema a economia pianificata, scelta pure legittima. Quello che è certo è che nel limbo non si può più stare.

Pensiamo a tutte porzioni di reddito drenate al reddito fisso, su cui già pesa la maggior parte dell’imposizione fiscale, a favore di quelle vere e proprie corporazioni medievali protette da ogni forma, anche minima, di concorrenza che sono diventate talune categorie di professionisti. Che impunemente ci impongono a discrezione le loro esose quanto arbitrarie tariffe e a cui doniamo quote crescenti del nostro reddito: notai, farmacisti, dentisti, solo per citarne alcune delle più odiose ed odiate. Si tratta di un prelievo ingiusto e ingiustificato e se già non fa piacere pagare le tasse allo Stato, non si vede perché dobbiamo continuare ad ingrassare professionisti già più che benestanti che non conoscono crisi alcuna. La parte di reddito che costoro ci estorcono a discrezione, per giunta coi redditi di fatto fermi, deprime il potere di acquisto del cittadino.   Questa tassazione impropria da anni contribuisce a tenere i consumi fermi da un ventennio e la crescita stagnante a livello di decimali, quando va bene. Ma il discorso è estensibile a tutti i professionisti protetti da un ordine che ne regolino l’accesso, spesso passato di padre in figlio, e ne determinino le tariffe minime. In spregio ad ogni sia pur basilare criterio di concorrenza o merito.

Quanti giovani professionisti, ora ai margini, potrebbero farsi strada nelle professioni, potendo garantire al cittadino prezzi migliori per compensare la minore esperienza? Lo scontro è, difatti, solo in parte tra settori diversi di popolazione: per molti versi siamo dinanzi a uno scontro generazionale. Un governo appena decente dovrebbe intervenire su tali interessi costituiti senza indugio. Figurarsi poi uno che si dichiara liberale. Per i giovani, su cui ci si esercita quotidianamente nella più vuota retorica, si aprirebbero spazi enormi. Ma, si sa, il nostro esecutivo è tanto debole coi forti quanto è forte coi deboli, fino al vero e proprio odio che questa finanziaria mostra verso quelle classi più umili da cui pure la maggior parte anche di questa maggioranza parlamentare è appena emersa. Grazie alla politica, cui devono tutto. Si direbbe che odino il ricordo del proprio passato, magari perché così prossimo.

Tornando all’analisi, è evidente che più si posticipano le attese riforme, le liberalizzazioni, più diventa inevitabile una patrimoniale che abbatta significativamente il fardello del debito. Facendo finalmente pagare chi per troppo tempo è stato solo spettatore dei sacrifici altrui. Si tratterebbe di una misura che credo giusta se è vero com’è vero che abbiamo un numero di milionari di gran lunga maggiore di paesi con dimensioni ed economie non dissimili dalle nostre (la Francia, ad esempio). Anche solo questo dato dovrà pur dire qualcosa sull’iniquità di un fisco che troppi possono impunemente eludere. Tutto ciò, per chi tira quotidianamente la cinghia, con stipendi o pensioni da fame, è francamente insopportabile. Il clima sociale, di fronte a sacrifici imposti ai soliti noti, rischia di diventare davvero, senza retorica, incandescente. Senza fare un discorso ideologico, la misura poi ha un altro innegabile vantaggio. Sarebbe l’unica che non avrebbe conseguenze depressive per i consumi e per la crescita. Tassare i multimilionari che meno hanno pagato in assoluto negli ultimi venti anni non frena i consumi come tassare ulteriormente i ceto medi e bassi.

Veniamo ora a un altro punto, la politica dei redditi, che va affrontata assieme a un altro nodo, il crollo della produttività del lavoro che tutti gli indicatori statistici ci attribuiscono a partire almeno dagli anni novanta. Un crollo relativo, ovviamente, e non rispetto alla Cina, che fa dumping sociale su vasta scala e con la quale non c’è storia (non si può competere coi negrieri), ma rispetto a tutti i paesi del cosiddetto primo mondo, anche dai salari molto maggiori dei nostri. Pensiamo in primis alla Germania. Bene, la perdita relativa della produttività del lavoro non è ascrivibile al lavoratore, come ci si vuol far credere.

Chi lo sostiene è in evidente malafede. Al contrario è imputabile ai mancati investimenti in innovazione, anche e soprattutto tecnologica, da parte delle imprese, appartiene quindi alla parte datoriale e al sistema fiscale che tassa investimenti produttivi che andrebbero al contrario incentivati. Dove trovare i soldi che servirebbero anche per abbattere il costo dell’innovazione e il cuneo fiscale sui redditi da lavoro? Tassando maggiormente le rendite improduttive da posizione, che godono di aliquote oggettivamente troppo basse.

Vi è poi un problema strutturale, dovuto all’ossatura del nostro sistema imprenditoriale, caratterizzato da un altissimo tasso di imprenditorialità che, anche al netto dei donatori di lavori e dei prenditori di fondi pubblici di cui l’Italia è così ricca, ha pochi paragoni al mondo. Il problema è qui dimensionale: l’innovazione, la ricerca tecnologica, richiedono una massa sufficientemente grande ignota alla maggior parte delle imprese italiane. Quello che in passato è stata la forza del sistema paese rischia di essere il più grave limite alla loro stessa sopravvivenza nella competizione internazionale. Il modello della One Man Company non paga più e spesso non sopravvive al passaggio internazionale. Anche qui, la leva fiscale dovrebbe favorire le fusioni per aumentarne la massa critica in modo da poter competere sui mercati mondiali ad armi pari. Senza necessariamente mutuare o importare il modello francese dei giganti nazionali. Nemmeno copiare il sistema tedesco è la soluzione, l’Italia può creare un suo modello originale.

Il governo si spera uscente è andato sin qui in direzione opposta, favorendo la rendita di posizione sui redditi da lavoro. L’abolizione indiscriminata dell’Ici anche per gli immobili di prestigio, l’abolizione della tassa di successione anche per i miliardari, oltre che assolutamente inique, sono state una vera idiozia economica. La destra italiana, per ragioni storiche più o meno risalenti addietro nel tempo (il retaggio del Ventennio e l’eredità di Forza Italia, che ha la conservazione degli interessi di B. nella ragione sociale) è tutt’altro che liberale. Al contrario, è in nuce corporativa e per molti versi classista, nonostante, si è detto, l’estrazione sociale della maggior parte dei suoi aderenti. In più, ha un’altra tara evidente: è estremamente provinciale, anzi municipale. I leghisti hanno una visione autarchica da comunità montana. A tal proposito, mi si permetta un inciso, a cosa che sorprende è come possa aver fatto fortuna proprio in quelle zone del paese che più sono aperte al mondo.

I punti proposti dalle parti sociali sono tutte riforme a costo zero che davvero potrebbero intervenire sui freni del nostro paese. Ferma testando la necessità del rigore di bilancio, si vede bene come ci siano praterie da sfalciare con cui sanare i bilanci e promuovere la crescita. Pensiamo anche alle municipalizzate in cui sono parcheggiati una ventina di migliaia di consiglieri di amministrazione per la maggior parte politici trombati, privi di competenze e preoccupati soltanto di perpetuarsi sistemando orde fameliche di clienti e famigli. Sui quali, incapaci come sono di raccogliere il voto libero, basano il loro potere locale. L’agenda di un governo consapevole e che guardi al futuro dovrebbe intervenire decisamente su questi punti, facendosi forte della vera ricchezza dell’Italia: un capitale umano universalmente riconosciuto di primissima qualità che il mondo ci invidia e che è sistematicamente umiliato in un sistema clientelistico relazionale corrotto che premia non i meritevoli, ma i più spregiudicati e privi di scrupoli.

Ma il Tremonti degli infiniti condoni, criminali e criminogeni, l’Alfano che solo qualche settimana fa dichiarava agli ordini professionali che la riforma l’avrebbero scritta loro o addirittura Berlusconi, l’unico imprenditore al mondo che controlla anche la concorrenza, non lo faranno mai. Il gruppo di potere che rappresenta costituisce il principale freno a ogni ripresa. L’Italia avrebbe bisogno di un uomo con una solida reputazione internazionale, sobrio e concreto, qualcuno alla Mario Monti per superare l’emergenza e porre le basi per una rinascita che, prima ancora che economica, sia anche civile e morale.

La riforma fiscale che prospettano è solo una fantasia di cui parlano a vanvera da vent’anni ormai. L’ipotesi poi, pure ventilata, di spostare la tassazione dai redditi ai consumi è semplicemente suicida, oltre che assurda e depressiva per l’economia. La misura più classista che si ricordi dai tempi della tassa sul macinato. Un colpo di sole agostano in anticipo che però denota la natura violentemente antipopolare e reazionaria di una maggioranza raccogliticcia, unita solo dalle poltrone e dalle prebende che può distribuire, che si serve delle istituzioni che invece dovrebbe servire. La macchietta di un Berlusconi che non perde il vizio e, pro domo sua, come al solito e nonostante la gravità del momento, invita a comprare le azioni delle sue aziende rende bene l’idea di una guida orba e non all’altezza del momento storico, che per di più persevera nell’errore.

Se quel Titanic, che solo poche settimane prima era per lo stesso Tremonti “una nave che va”, non inverte la rotta, finiremo per schiantarci. L’uomo che da vent’anni tiene in ostaggio l’Italia (non esattamente un isolotto del Caribe, nonostante tutto) per i suoi interessi personali una cosa sola può fare per il bene di un paese ormai devastato forse irrimediabilmente: dimettersi quanto prima.

Commenti all'articolo

  • Di pv21 (---.---.---.26) 10 agosto 2011 19:55

    Mirabilis >

    Era il 9 giugno quando Berlusconi dichiarava che “l’attività del governo ha del miracoloso” tanto da meritare “un monumento”. Prima dell’estate, aggiungeva, avrebbe fatto una “manutenzione” del bilancio da appena 3 miliardi. Per arrivare al pareggio entro il 2014, concludeva, bastava “un intervento inferiore a 1 punto del Pil”.

    Poi, il 15 luglio, il Parlamento approvava “di gran corsa” una manovra da circa 70 miliardi. Ora, incalzato da Trichet, Merkel e Sarkozy, il Premier deve trovare 20 miliardi per pareggiare il bilancio nel 2013.

    E’ vero che da luglio le Borse Europee sono attaccate dalla speculazione internazionale.
    Se Francoforte e Londra hanno accumulato cali del 18%, Piazza Affari segna un -30%. La nostra Borsa sconta così gli effetti della mancata crescita.
    Nel 2013 il paese sarà “più forte e più libero” (parola di berlusconi) con una pressione fiscale sopra il 44%?

    Per governare non basta l’avallo di una casta di Primi Super Cives

    • Di Giuseppe Riccardi (---.---.---.174) 10 agosto 2011 21:24
      Giuseppe Riccardi

      E’ incredibile quanto il Governo abbia sottovalutato la crisi. Tanti segnali lasciavano facilmente intravedere che l’Italia sarebbe stata la tessera successiva del domino a cadere. Una sottovalutazione colpevole. Le dichiarazioni che riporti la dicono lunga. Le camere di fatto erano state chiuse con la fiducia sul tema del processo lungo, salvo poi essere riaperte, e di corsa, per rispondere all’emergenza. Molto interessante il concetto di primi super cives, mi chiedo se, nominati a parte, vista la qualità della gente che mandiamo a rappresentarci, non sia il caso di lanciare piuttosto un’estrazione, un sorteggio. Affidandoci alla fortuna, il parlamento che ne risulterebbe sarebbe comunque migliore di questo. E’ una provocazione, ma neanche tanto! smiley




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