Arriva in Sardegna il teatro di Giulio Cavalli: attore, autore che vive sotto scorta

Giulio Cavalli, nato a Lodi, in Lombardia, dove risiede con la moglie e i due figli e dov’è consigliere regionale, da due anni è sotto scorta. Dal 27 aprile 2009 non è più solo, per ogni suo passo se ne contano altri tre. Non stupisce che sia scortato perché chi sceglie la via della parola ha già scritto il suo destino. Cavalli ha scelto di lottare contro un grosso macigno della società, la mafia. Ma, la sua, non è una semplice lotta, è una guerra fatta di nomi e cognomi, di smascheramenti e sberleffi.
Dal 2001 Cavalli ha messo su una compagnia itinerante, la “Bottega dei mestieri teatrali”, e dal 2006 ha iniziato a calcare le scene dei teatri italiani come narratore. Nel 2007 ha debuttato al Piccolo Teatro di Milano con “Linate, 8 ottobre 2001; la strage”. Segue nel 2008 “Do ut Des”, spettacolo teatrale su riti e conviti mafiosi. E con quest’ultimo spettacolo arrivano le prime minacce. Ma Cavalli non si arrende e nel 2009 mette in scena “A cento passi dal Duomo”, scritto con il giornalista Gianni Barbacetto. Nello stesso anno viene invitato al Quirinale dal presidente della repubblica, Giorgio Napolitano, per esprimergli solidarietà e sostegno. Nel 2010 vince il premio Pippo Fava. Attualmente va in scena con “Nomi, cognomi e infami”.
Il suo libro non è un libro come gli altri. Non è solo narrazione. E’ un libro che rivendica le 670 persone sotto scorta in tutta Italia. Mette a nudo la goffaggine di cosa nostra, della mafia, della camorra, della ’ndrangheta. E’ un libro che ruota intorno al potere della parola, quel mitra senza proiettili che instilla germi; germi di consapevolezza, germi di coscienza, germi di libertà come si legge tra le pagine del libro.
In “Nomi, cognomi e infami”, Cavalli accompagna il lettore dalle strage di via D’Amelio agli omicidi di Bruno Caccia, Pippo Fava, don Peppe Diana e Peppino Impastato. Tutti personaggi che hanno superato il muro dell’omertà e hanno parlato, in tutti i modi, con ogni mezzo possibile. Non speravano di cambiare il mondo, speravano solo di smuovere le coscienze dei più. Speravano che le generazioni future prendessero il loro esempio. Questi uomini utilizzavano un’arma incontrastabile, la parola. Per questo sono stati uccisi, per questo li hanno eliminati. Perché la mafia vive grazie al silenzio, “perché preferirebbe una condanna a morte piuttosto che l’attenzione”. Le date le trovate qui
(Articolo pubblicato originariamente su sardegnanovas.info)
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