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Anna Pavignano: un’autobiografia dell’infanzia

La casa editrice Topipittori di Milano più che avere una linea editoriale si è quasi presa un impegno: quello di raccontare il mondo dei bambini nel modo più credibile e sincero possibile.

 

Impresa complessa in una cultura dove le fiabe e i racconti per l’infanzia sono stati spesso frutto del pudore degli adulti di perdere la propria autorevolezza, rivolgendosi all’infanzia con il senso del dovere pedagogico. Il risultato è spesso stucchevole o incomprensibile; se non addirittura terrorizzante, quando gli autori calcavano troppo la mano sulle conseguenze di un comportamento imprudente o non conforme.

Topipittori ha due collane distinte, ma non troppo. Una si chiama “Gli anni in tasca”, l’altra “Gli anni in tasca Graphic“: l’una è narrazione scritta, l’altra è narrazione disegnata. Se formalmente l’aspetto è differente, la sostanza rimane la stessa. Stesso impegno da parte degli autori di fare un difficile percorso a ritroso, di rivestire in modo sincero i panni della loro infanzia, lavorare su una autobiografia che faccia emergere i sentimenti, i ricordi più importanti, episodi indimenticabili che, in quanto tali, fanno spesso parte delle esperienze infantili comuni a tutti noi.

Per la prima collana Topipittori ha pubblicato autori come Antonio Faeti, Ugo Cornia, Bruno Tognolini. E poi Anna Pavignano, con “Una cosa che ti scoppia nel cuore“. Anna, piemontese, è stata autrice insieme a Massimo Troisi di tutti i suoi film. Insegna scrittura cinematografica e ha scritto alcuni romanzi e un paio di libri per ragazzi. Ma con Topipittori deve fare i conti con la sua infanzia. Finora ho avuto il piacere di leggere tre libri della collana grafica (gli autori: Tuono Pettinato, Giulia Sagramola e Michele Petrucci), dove la capacità di immedesimazione degli autori è totale e il risultato è bello e convincente.

Con Anna Pavignano il discorso diventa più complesso, perché nella sua autobiografia infantile e preadolescenziale (è il limite d’età entro il quale devono fermarsi gli autori), tratta quasi esclusivamente il tema della paura in una bambina fragile. E’ una scelta coraggiosa e convincente, perché la paura è forse la sensazione più forte che i bambini provano nel loro procedere nelle nuove esperienze. E la paura si concretizza in figure che fanno parte dell’ignoto, del sacro, di ciò che ha sempre condizionato, nel bene e nel male, anche le coscienze degli adulti.

Qua si dovrebbe usare la parola “ancestrale”, ma ritengo sia più onesto pensare a quanta paura possa dare in un bambino l’immagine che esista il diavolo, causa di tutti i mali, alla quale è possibile dare un aspetto mostruoso. Ma è spaventosa per la piccola Annamaria anche la Madonna, che potrebbe comparirti non richiesta da un momento all’altro, come un fantasma. Personalmente da piccolo ho sempre evitato accuratamente di vedere quei film dove Maria di Nazareth compare a pastorelli terrorizzati sotto forma di figura diafana, fluttuante qualche spanna sopra il terreno.

Anna Pavignano insomma racconta queste paure, quelle che fanno parte di una educazione cattolica, perbene, ma che viene impartita dogmaticamente da parte di preti spesso insegnanti di una forma di catechesi che è, inconsapevolmente, basata sull’horror (leggete questa parola nella sua forma latina o inglese, che tanto l’effetto sul bambino è il medesimo). Mi si perdonerà se di nuovo torno sul personale, ma io il catechismo lo abbandonai alla seconda lezione, quando una suora anziana ci raccontò la dedizione di una bambina che, sapendo di poter fare la comunione solo all’età in cui avrebbe cambiato i denti da latte, se li spaccò con un sasso.

Tema ancora più delicato è quella della malattia nervosa della madre, della depressione da cui è afflitta e che preoccupa la bambina ipersensibile. Se il padre e la sorella maggiore sono le parti forti della famiglia a cui aggrapparsi, Annamaria rimane comunque una bambina abituata a un autocontrollo di facciata, con uno spiccato senso del dovere che lascia prevedere forse un destino comune a quello della madre. Su questi ricordi, su questi sentimenti si innesta forse la parte adulta del racconto, probabilmente incomprensibile per un bambino. C’è quasi uno slittamento temporale che porta addirittura la scrittrice a parlare di eventi che si verificheranno in futuro usando il linguaggio della bambina. Più che di un flashforward sembra uno stato regressivo dovuto all’autoanalisi, probabilmente sofferta, che Annamaria Pavignano compie nel viaggio dei ricordi nel suo libro.

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