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Ambiente: Il valore del confronto - ETS, Carbon tax e competitività industriale

Articolo di Agime Gerbeti, Docente Sostenibilità Ambientale e Sociale (Università LUMSA) 

È storia di questi giorni che il neoeletto presidente Trump voglia imporre dei dazi alla frontiera sui prodotti europei. Questo sarebbe, secondo alcuni commentatori, una ritorsione perché l’Europa, qualche anno fa, ha vietato l’importazione di carne americana derivante da manzi allevati e cresciuti con l’utilizzo di ormoni.

Gli statunitensi impugnarono[1] tale divieto di fronte all’Organizzazione Mondiale del Commercio che, con la decisione WT/DS26/ARB[2], diede torto agli europei, affermando che il divieto era sostanzialmente illegittimo in quanto l’UE per valutare il rischio alla salute aveva preso in considerazione solo gli effetti di una somministrazione di ormoni effettuata in eccesso secondo la “buona condotta veterinaria”, tralasciando invece di valutare anche la somministrazione di “normale” ormoni. Nonostante questa decisione l’UE rispose come Clark Gable in Via col vento: “francamente me ne infischio”, e rifiutò comunque l’imposizione.

L’ironia di questa piccola storia è che i liberisti europei da una parte si stracciano le vesti per questa presunta illiberale ritorsione statunitense e, con la stessa argomentazione di salvaguardare una paritaria competizione industriale, cercano di imporre un nuovo dazio doganale sulle emissioni, affermando che l’Europa è virtuosa con fonti rinnovabili e gas e che questo penalizza l’industria sul costo energetico nei confronti dei competitor cinesi che vanno a carbone e quelli americani a shale gas. Industrie che crescono grazie agli ormoni emissivi.

L’emission trading scheme, l’autocratico meccanismo europeo per limitare le emissioni, appare ora (e finalmente) per quello che è, ossia uno strumento inadeguato per le emissioni e potenzialmente lesivo della competitività industriale europea qualora dovesse arrivare alla tanto cercata “efficienza di prezzo”. Quindi, a parte la Commissione Europea, quasi tutti i soggetti interessati cominciano ad abbandonare l’ETS a favore di una carbon tax vista come panacea di tutti i mali ambientali del mondo.

 

Costruire muri

La carbon tax dovrebbe essere una tassa alla frontiera sui prodotti importati da paesi con un mix energetico più emissivo e una efficienza di processo e di macchinari impiegati inferiore a quella europea.

“Dovrebbe” perché nessuno spiega veramente su quali basi andrebbero calcolate le presunte maggiori emissioni delle fabbriche estere. In altre parole con la carbon tax si pagherebbe la differenza tra i benchmark europei e le emissioni medie europee, ossia quanto pagano (più o meno) le stesse industrie europee? Ma questo significa che si dovrà fingere che le emissioni medie di una fabbrica nel distretto industriale del Fujian, nel sud est della Cina siano pari a quelle medie europee. E questa non una semplice finzione, ma una vera e propria assurdità.

Oppure questa industria dovrebbe pagare una tassa pari alla differenza tra i benchmark europei e la media, stavolta, del paese di provenienza? Questo approccio sarebbe anche verosimile ma, probabilmente, illegittimo perché ipotizzare che tutti i produttori industriali cinesi (o indiani, tailandesi etc.) si approvvigionino con un mix energetico e quindi con un livello di emissioni analogo a quello medio del paese di origine sarebbe discriminatorio esattamente come sostenere che tutti i produttori statunitensi utilizzano ormoni della crescita per l’allevamento dei loro manzi[3]. Probabilmente il WTO la dichiarerebbe illegittima. E i problemi giuridici non finirebbero certamente qui.

Eppure, senza un solido sostegno giuridico, senza neanche sapere con chiarezza cosa far pagare, da più parti si invoca la carbon border tax.

Lakshmi Mittal, chairman e chief executive di ArcellorMittal, il più grande produttore mondiale di acciaio dice che c’è l’urgenza di approvare una tassa sui beni importati in Europa da paesi che non hanno un carbon price e che questa è “the best answer on climate change”.

Anche dall’altra parte dell’oceano gli ex segretari di stato americani Baker e Shultz e l’ex segretario del tesoro Paulson in un interessante articolo intitolato “A Conservative Climate Solution: Republican Group Calls for Carbon Tax[4] si sono recentemente fatti promotori presso la nuova amministrazione di una carbon tax interna e (ovvio corollario) di una border adjustment tax[5] .

D’improvviso industriali, liberalisti europei, repubblicani e la stessa amministrazione Trump sono diventati ambientalisti militanti? È più probabile che la carbon tax alla frontiera rappresenti niente altro che una misura protezionistica come le altre, anzi migliore perché sembra essere etica, posta per il bene del mondo.

 

Lo studio di settore

Sorprende invece che molti sinceri ambientalisti sostengano l’adozione della carbon tax. Un comportamento comprensibile ma avventato. Sostenere che una carbon tax sia controproducente, ossia che di fatto incentivi le emissioni appare una provocazione, ma nella pratica economica questa sarebbe, con molta probabilità, la prima conseguenza dell’introduzione di una tassa alla frontiera sulle emissioni.

Per usare una metafora, la carbon tax alla frontiera si comporterebbe come uno studio di settore, lo strumento utilizzato dal fisco italiano per valutare la capacità di produrre reddito imponibile di liberi professionisti e società. Nel caso in argomento sarebbe come dire che l’amministrazione europea non sa quanto emetti e nemmeno le interessa, ma intanto ti tassa sulla base di una credibile approssimazione. Innanzitutto aggraverebbe realtà industriali che non meritano quel livello di imposizione perché hanno emissioni inferiori di quelle attribuite dalla Commissione europea; in secondo luogo non fornirebbe all’industria estera alcuno strumento per dimostrare che emette meno della media del paese di origine, per difendersi non potrebbe impugnare lo specifico provvedimento contro i propri prodotti ma solo impugnare la stessa carbon tax.

Infine, se viene attribuito un mix energetico/emissivo medio a un’industria, ad esempio tailandese, pari a quello medio della Tailandia, questa industria sarà tentata di approvvigionarsi di energia meno costosa per compensare la maggiore imposizione in ingresso in Europa; e quasi certamente questa energia sarà ancora più emissiva. Dunque se il prezzo del carbone e di altri vettori fortemente emissivi dovesse rimanere basso, le industrie soggette alla carbon tax alla frontiera utilizzeranno i vettori energetici più inquinanti perché meno costosi.

In altri termini, se l’Europa mi considera un “peccatore emissivo” e non mi dà alcuna possibilità di dimostrare che non lo sono, allora tanto vale esserlo per davvero e fino in fondo.

Dunque il paradossale effetto di una carbon tax potrebbe essere quello di aumentare le emissioni al livello globale.

 

ImEA, imposta sulle emissioni aggiunte

Ma se l’ETS è una misura interna e per molti aspetti lesiva della competitività industriale europea e la carbon tax non raggiunge lo scopo di incentivare una decarbonizzazione dell’economia, quali strumenti per limitare le emissioni e il riscaldamento globale?

Innanzitutto occorre smettere di pensare in termini di parti contrapposte, di feudali vantaggi di questa o di quella industria o, peggio, di questo o di quel settore dell’industria, e porre l’attenzione al contenuto specifico di carbonio nella fabbricazione dei prodotti, come se i beni sul mercato ancora contenessero le emissioni necessarie alla loro produzione e focalizzarsi su quella specifica quantità di CO2 e valorizzarla.

Se il risultato di questa valorizzazione avvantaggerà l’industria europea o un’altra dipenderà solo dalla reale efficienza emissiva dei processi industriali, del mix energetico utilizzato. La competizione sul mercato deve avvenire in futuro anche in base alle emissioni che sono state prodotte, la CO2 dovrà essere il nuovo parametro competitivo, il valore della speranza posta tra la qualità e il prezzo.

 

[1] EC Measures concerning meat and meat productions (hormones). Arbitration under Article 21.3(c) of the Understanding on Rules and Procedures Governing the Settlement of Disputes. World Trade Organization WT/DS26/15 WT/DS48/13, 29 May 1998.

[2] European Communities – Measures concerning meat and meat productions (hormones). Original compliant by the United States Recourse to arbitration by the European Communities under article 22.6 of the DSU Decision by the Arbitrators. The report is being circulated as an unrestricted document from 12 July 1999 pursuant to the Procedures for the Circulation and Derestriction of WTO Documents (WT/L/160/Rev.1).

[3] Infatti, nel 2009 ci fu un accordo tra UE e USA e questi si impegnarono a produrre carne non trattata con ormoni. La UE non lo comprò comunque.

[4] Pubblicato sull’International New York Times del 07/02/2017.

[5] Lo studio “The conservative case for carbon dividend” è pubblicato a febbraio2017.

 

Agime Gerbeti, Docente Sostenibilità Ambientale e Sociale - Università LUMSA, per Orizzontenergia

Questo articolo è stato pubblicato qui

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