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Aliquota fiscale massima in Costituzione

Si propone da più parti di inserire in Costituzione il massimo del prelievo fiscale, ma il limite massimo di imposizione globale fiscale è già inserito da oltre 60 anni nella nostra Costituzione, con l’articolo 36 e 53.

Si propone da più parti di inserire in Costituzione il massimo del prelievo fiscale, lo si discute senza cognizione e lo si propone senza causa.

Questa storia ricorda tanto l’inserimento, ormai avvenuto, dell’obbligo di pareggio in bilancio. Era inutile e lo sarà ora anche più. Era inutile perché l’obbligo era già presente nella Costituzione là dove dice che non si possono deliberare nuove spese senza indicarne la copertura.

Senza contare che il pareggio di bilancio non è sinonimo di conti in ordine perché può essere ottenuto con vendita del patrimonio, con ipertassazione o con tagli a colpi d’ascia o di sciabola del welfare. Che senso e che importanza avrà un pareggio ottenuto in questo modo? A che servirà mai un pareggio in uno Stato che, come un nobile decaduto, vive vendendo i gioielli di famiglia? E/o che la ottiene soffocando l’economia con pretese fiscali insopportabili?

O che ha conti in pareggio e tassazione leggera riducendo o azzerando le pensioni, l’assistenza sanitaria, la pubblica istruzione e gli aiuti agli invalidi?

Certo potremo ricorrere, come negli Usa, ad assicurazioni private e dare ad esse, senza alcun tentativo di distribuzione dei gravami secondo il reddito, quello che paghiamo oggi di imposte, ma a che servirebbe lo Stato?

Ora non contenti della sciocchezza di questo pareggio di bilancio in Costituzione (invece di un limite al rapporto debito/Pil superabile solo per un periodo prestabilito), si vuole introdurre l’obbligo di un limite massimo di tassazione.

Lo propongono senza cognizione perché gli stessi promotori non hanno chiaro se intendono inscrivere in Costituzione un’aliquota massima per le imposte dirette (superabile gravando sui contribuenti, con aumenti delle imposte indirette) oppure se intendono stabilire il livello massimo di pressione fiscale. Ma anche qui non hanno cognizione: infatti il dato che viene indicato come pressione fiscale non è vero e reale. Si oscilla tra dati estremamente diversi tra loro.

Si sente parlare di un pressione al 45%, al 48% al 55% e anche al 68%.
Poi si scopre che l’aliquota massima fiscale è al 43%, che il gettito fiscale viaggia intorno ai 400 miliardi di euro su un Pil di quasi 1.600 miliardi annui (25% circa).

Il problema è che nella pressione fiscale si comprende anche il gravame per i contributi sanitari e previdenziali che, come natura, nulla hanno a che vedere con le imposte statali, regionali e comunali.
Non solo, ci sono le maggiorazioni regionali e comunali che spesso non vengono conteggiate nell’aliquota massima di Irpef: perché variano da zona a zona e anche da comune a comune.

Inoltre dette aliquote possono cambiare anno dopo anno dato che spesso sono collegate al rispetto di parametri di spesa: se gli amministratori hanno speso o rubato di più vengono puniti i cittadini con un aumento delle imposte.

Naturalmente questi potranno punire gli amministratori ladri o incapaci non votandoli: ma è più in teoria che in pratica perché di motivi e scuse, di cause eccezionali e colpe altrui se ne trovano sempre.
Inoltre questo accadrà quando ci saranno le elezioni. Magari dopo 4 o 5 anni. Nel frattempo i contribuenti, dopo aver subito la perdita di danaro per l’operato dei politici, dovranno anche pagare imposte più alte.

E lo fanno senza causa perché inserire tale aliquota in Costituzione sarebbe inutile.
L’inutilità deriva da vari fattori:

a) l’interpretazione della norma. Infatti i nostri politici sono abilissimi nell’interpretare a proprio uso e consumo le norme. Basti ricordare il finanziamento pubblico ai partiti. Fu vietato da un referendum, ma subito il risultato fu interpretato e il finanziamento fu sostituito da un rimborso elettorale senza obbligo di rendiconto;

b) come hanno inventato le spese di produzione non detraibili dai costi, così inventeranno le imposte non calcolabili nella pressione fiscale;

c) c’è il margine di tollerabilità. Decine di sentenze nazionali ed europee stabiliscono che l’affollamento delle carceri italiane è abnorme e colpevole, ma, è stato stabilito, che è comunque eccessivo in misura tollerabile o accettabile. Ovviamente lo ha stabilito gente che non ha passato un’ora in una cella e che ha garanzie particolari di non passarcene mai una.

L'imposizione globale fiscale è già in Costituzione

Ma il fatto più importante è che il limite massimo di imposizione globale fiscale è già inserito da oltre 60 anni nella nostra Costituzione, bella e sempre più inapplicata.

Risulta dal combinato di due articoli: l’articolo 36 e l’articolo 53.
Il primo dice che al lavoratore (qualsiasi tipo di lavoratore, chiunque lavori) spetta una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità del lavoro svolto e poi aggiunge “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
È evidente che, trattenere ad un lavoratore che percepisce uno compenso annuo di 15.000 €, prima il 10% per gravami contributivi e poi il 23% del percepito non realizza il principio costituzionale.

Già è molto discutibile che 15.000 € di stipendio annuo possano assicurare ad una famiglia, per quanto piccola, “un’esistenza libera e dignitosa”, ma, se poi gli togliamo 3/4000 €, entriamo nel ridicolo. Nel tragicamente ridicolo.

L’altro articolo invece stabilisce che i cittadini devono contribuire alle spese pubbliche “in ragione della propria capacità contributiva”. Infine, al secondo comma, stabilisce che il sistema tributario “è” informato a criteri di progressività.

Notare che dice “è” e non “deve essere informato” a criteri di progressività e questo evita la scappatoia dell’articolo con valore programmatico, cioè una specie di pia intenzione.

Combinando i due articoli sappiamo che chi guadagna poco non può essere gravato di imposte sino al punto da farlo scendere al di sotto del reddito che assicura un’esistenza libera e dignitosa e che chi guadagna molto deve versare aliquote fiscali che, per lui, rappresentino un peso, anche psicologico (principio dell’utilità marginale, almeno pari a quello subito da chi ha un reddito basso.

Ma, prescindendo da tutto questo, teniamoci ad un solo dato elementare.
Nel 2008 era considerata povera una famiglia di due persone con reddito di mille euro al mese. È ovvio che la famiglia in questione non dovrebbe pagare assolutamente nulla di imposte e di gravami previdenziali.

Appare il minimo del minimo così come appare evidente che chi supera quella somma dovrà subire un prelievo minimo sulla sola parte eccedente i mille euro mensili.

Ovviamente, se un cittadino che guadagna 1.500€ mensili si troverà a pagare, ad esempio, 200€ mensili al fisco, chi ne avrà 20.000 dovrà pagare una somma che gli pesi, anche psicologicamente, almeno quanto quei 200 pesano all’altro contribuente e sarò spiacente per lui se la sua aliquota massima sarà del 50 o 60%, ma potrà consolarsi pensando alla privazione di quel tale al quale quei 200 € impediscono di fare spese utili.
Potrà anche considerare che, comunque, la somma che gli resta sarà sufficiente “ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”  

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.8) 18 febbraio 2013 23:01

    Per non equivocare >

    Prima di parlare di aliquota massima dovremmo chiarire qual’è l’oggetto della imposizione fiscale. Per esemplificare.
    Immaginiamo che il reddito di un nucleo familiare sia la somma di tutte le "ricchezze " possedute. Reddito di lavoro, di impresa, proprietà, rendite, beni mobili, ecc ...
    Una aliquota massima del 40% sarebbe più che sufficiente per assicurare un gettito complessivo adeguato.
    Potremmo collocare la fascia di esenzione al di sopra della soglia di povertà in modo da garantire sempre un minimo di vita dignitoso.

    A non essere d’accordo sarebbero proprio quelli che avanzano la proposta in titolo.
    Sono i cultori di Pantomima e Rimpiattino ... 

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