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Afghanistan: partiti gli americani, arriveranno i cinesi

Con la prospettiva della partenza dei soldati occidentali prevista per il 2014, la concorrenza per un posto al sole in Afghanistan si sta facendo serrata. Allo stesso tempo, il governo afgano ha cercato di rafforzare i suoi legami con i Paesi vicini.

La Repubblica Popolare Cinese condivide solo pochi km di confine con Kabul, ma è già in prima fila per acquisire una significativa influenza nell'Afghanistan del dopo NATO. Si spiega così la visita a sorpresa a Kabul di Zhou Yongkang, capo della sicurezza interna cinese, nel corso della quale i due Paesi hanno sottoscritto un action plan che impegna la Cina a fornire al governo locale 150 milioni di dollari in aiuti alla ricostruzione e in assistenza tecnico-economica, oltre che ad addestrare la polizia afghana.

Da tempo gli analisti ripetono che la prima a beneficiare del ritiro americano sarà proprio Pechino. Perché l'obiettivo della Cina sono le ricche concessioni minerarie che il governo di Kabul è pronto a mettere all'asta: ne avevo già parlato qui; per contributi più recenti si veda qui e qui.

"L'Afghanistan lasciato solo, finirà per buttarsi nelle braccia dei cinesi", secondo il noto analista Ahmed Rashid. Per adesso pare essere proprio così. Dopo tutto, neppure i più ingenui avevano creduto che gli aiuti "disinteressati" (sic) promessi da Pechino al governo afghano nei mesi scorsi potessero essere veramente tali.

In questi anni, mentre gli USA perdevano soldi, soldati e popolarità, i cinesi si assicuravano importanti contratti e concessioni estrattive per le proprie companies. Massimo risultato col minimo sforzo. Ma l'Afghanistan non è ancora pacificato e questo potrebbe mettere gli investimenti di Pechino a rischio. Si spiega così, secondo Luigi Spera su Limes, la mano tesa verso l'Alleanza Atlantica:

La Cina ha assunto in Afghanistan un atteggiamento molto opportunista. All’indomani degli attacchi dell’11 settembre, Pechino non ha fatto mai mancare il suo appoggio alle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell'Onu, per Enduring Freedom prima e per Isaf poi. La Cina si è tenuta apparentemente fuori da quello che sembrava un nuovo ‘grande gioco’ nell’area, facendo un lavoro tra le linee e puntando ai vantaggi che pure le sono venuti.


Ora che la strada è tracciata, gli investimenti ci sono e le aziende appaiono ‘esposte’ su un territorio dove la sicurezza resta una grande incognita, Pechino ha rivisitato la sua agenda afgana. Di fronte al fallimento di una missione che solo i governi impegnati maggiormente continuano a definire un successo e al rischio di una deriva balcanica dopo il ritiro nel 2014, la Cina ha mostrato il suo volto benevolo all'Occidente, dando a intendere negli ultimi mesi di essere pronta a correre in soccorso degli americani e della Nato. Come a dire che se finora le imprese e gli avamposti cinesi hanno beneficiato della sicurezza dovuta a un’occupazione che ne ha salvaguardato gli investimenti, ora si muovono per proteggere i propri interessi con il minimo sforzo economico e militare.
Così aiuterebbero sia loro stessi sia i governi occidentali, impegnati in una complessa ‘exit strategy’ elaborata per limitare l'enorme dispendio economico che le nazioni del Patto Atlantico - ma non solo - non sono più in grado di sostenere.
L’avvicinamento cinese alla Nato è qualcosa di effettivo, anche se ancora allo stato embrionale. Ma quello atlantico non è l’unico piano dove opera Pechino, che fa manovre anche in chiave regionale sfruttando principalmente le strutture dellaShangai Cooperation Organization (Sco), di cui sono membri Cina, Russia e quattro repubbliche centroasiatiche ex sovietiche: tutti paesi che hanno dato il loro benvenuto all’Afghanistan come osservatore (lo erano già anche India e Pakistan) solo pochi mesi fa.
In questo ambito, con il motivo ufficiale della lotta al traffico di droga e al terrorismo, i paesi dello Sca hanno collaborato principalmente con il governo Karzai e indirettamente con Nato e Stati Uniti. Appellandosi proprio alla stabilità dell’Asia centrale e alla lotta al fondamentalismo religioso (interessante per i cinesi anche in chiave di contrasto anti-islamico nello Xinjiang), Cina e Afghanistan hanno sottoscritto un accordo di collaborazione strategica per combattere il terrorismo e rafforzare la cooperazione nel settore della sicurezza.
Ma non è con la collaborazione nella Sco che Pechino e Kabul hanno iniziato a fare affari. Basti pensare all’attività estrattiva nel bacino dell’Amu, l’investimento cinese che sfiorerà i 400 milioni di dollari per la costruzione di pozzi e raffinerie e che vedrà finire il 70% dei profitti nelle casse dell’asfittica economia afghana senza che questi soldi passino per la popolazione. Proprio ciò che gli afghani debolmente e con voce solo raramente amplificata dai media contestano: l’abitudine cinese, molto visibile anche in Africa e Sudamerica, di impiegare manodopera formata da connazionali, senza dare di fatto beneficio al paese ospitante.
Le vecchie abitudini restano, ma in Afghanistan la Cina sperimenta anche una nuova dottrina di un'ambivalenza evidente: quella della mano tesa dal punto di vista strategico diplomatico e dello sfruttamento spinto sul versante economico-produttivo. Una strategia che rimescola le carte in tavola, mentre il riposizionamento strategico militare degli Stati Uniti nell’area rimane poco chiaro.

A Kabul i maligni dicono che dietro i recenti attacchi possa esserci anche la mano degli americani, che non apprezzano il protagonismo del Dragone in Afghanistan. Certo la partita afghana è solo un tassello nel più ampio mosaico di relazioni tra Stati Uniti e Cina, impegnate - in nome della corsa alle materie prime - in una corsa frenetica per estendere la propria influenza nei quattro angoli del globo: dall'Africa all'America Latina, dalle acque del Pacifico ai ghiacci del Polo, passando per le steppe dell'Asia Centrale. Senza mai dimenticare che Pechino è e rimane il primo creditore di Washington.

Tuttavia, costatare che la Cina fa affari in terra afghana, mentre lì l'America ha sprecato vite e denaro, e che ora chiede addirittura la protezione NATO per preservare i propri business, fa un po' effetto. Soprattutto se si ripensa alle speculazioni che si leggevano dieci anni fa sugli interessi petroliferi, minerari e infrastrutturali americani sottesi alla "guerra sporca di Bush" in quel di Kabul. Altri tempi, altre storie.

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