• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Mondo > Afghanistan, l’ultimo prigioniero

Afghanistan, l’ultimo prigioniero

Non è Assange e neppure Navalny, ma è considerato egualmente pericoloso. Pericoloso e ostinato. Gli Stati Uniti lo detengono a Guantanamo è l’ultimo afghano considerato un affiliato di Al Qaeda.

 L’accusa proviene dalla Cia che lo prese in consegna dall’Isi pakistana nel 2007. In realtà Muhammad Rahim, oggi cinquantasettenne alquanto malandato, faceva l’interprete, anche per attivisti arabi. L’addebito, mai provato, dell’Intelligence statunitense è che lo facesse anche per Osama bin Laden che, fatto fuori dalla stessa agenzia di Langley, non può confermare né smentire. Eppure tanto è bastato perché un’extraordinary rendition conducesse Rahim nel supercarcere per terroristi gestito dai reparti speciali americani e lì subisse l’intera trafila di torture, interrogatori, abusi, finte esecuzioni, nuovi interrogatori dove gli si chiedeva di confessare quel che aveva e non aveva commesso. Nel suo caso tradurre. Periodicamente il cosiddetto ‘Comitato di revisione periodica’ formato da graduati dell’Us Army, agenti della stessa Cia e funzionari dei governi che si sono succeduti, hanno valutato la posizione del detenuto afghano, uno dei tre su trenta prigionieri ancora bloccati a tempo indeterminato. Sedici di loro sono in attesa di trasferimento e una decina hanno processi in corso. Rahim che in quella galera speciale ha visto passare oltre duecento connazionali, di cui solo un certo numero erano talebani dichiarati, altri risultavano pastori, contadini, ragazzi in età scolare che non andavano a scuola, qualche noleggiatore di auto e lui, praticamente unico lavoratore di concetto conoscitore di lingue e interprete. La padronanza dell’arabo lo rendeva sospetto d’essere “un facilitatore” per i miliziani qaedisti. Di fatto il detenuto non è accusato di attacchi e violenza contro la nazione americana, i suoi militari o funzionari, ma oltre a resistere caparbiamente a sedute di tortura si è sempre rifiutato di mostrare rimorsi. Nonostante la segregazione in cella d’isolamento durata anni, Muhammad rigetta le frasi di rito sottoposte obbligatoriamente ai carcerati, una formula di condiscendenza verso gli Stati Uniti. Questo fa di lui un “duro jihadista”, come affermano le schede che ne illustrano l’orientamento, esaminate da legali dei diritti. E tale valutazione blocca qualsiasi evoluzione del caso, nonostante l’esercito americano si sia ritirato dall’Afghanistan dall’agosto 2021. Peraltro prevìo accordo coi vertici taliban. Nonostante non possa costituire un pericolo diretto, seppure basato su valutazioni ipotetiche, Rahim resta un ostaggio per la sua ferrea convinzione di non colpevolezza e la conseguente ostinazione a non inchinarsi ai propri carcerieri-torturatori. A poco servono gli appelli lanciati dai quattro figli ormai diventati uomini e dalla vecchia madre, nessuno li ascolta e soprattutto non c’è opinione pubblica che sappia di lui. Per Rahim prosegue il fine pena mai, anche senza condanne né ergastolo.

Enrico Campofreda

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità