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Aborto| Argentina: condannata a otto anni per aborto spontaneo, rilasciata in attesa dell’appello

Il 17 agosto la Corte suprema di Tucumán, nel nord dell’Argentina, ha stabilito che non vi sono ragioni perché Belén, una donna di 27 anni, resti in carcere in attesa dell’appello contro la condanna a otto anni inflittale in primo grado per un aborto spontaneo.

Nel marzo del 2014 Bélen si presenta al pronto soccorso di un ospedale della sua città, San Miguel de Tucumán, lamentando forti dolori alla pancia. Un medico la visita e la informa che è alla 22esima settimana di gravidanza e che è in corso un aborto spontaneo.

Di lì a poco, in un gabinetto del reparto dove è stata ricoverata viene rinvenuto un feto.

Senza effettuare alcun test del Dna, i medici collegano il ritrovamento del feto al ricovero di Belén. Un’infermiera lo depone in una scatola, entra nella stanza della donna e glielo getta sul letto, urlando “Ecco tuo figlio!” e coprendola d’insulti.

Nel frattempo viene chiamata la polizia. Belén si ritrova circondata da agenti e medici. Questi ultimi affermano che il feto trovato nel gabinetto è suo e la donna ha abortito volontariamente.

In Argentina, l’aborto è legale solo in caso di stupro o quando la vita o la salute della donna in gravidanza siano a rischio. Se l’aborto spontaneo non è un reato, quello volontario è considerato omicidio: pena prevista, da uno a quattro anni di carcere.

La pubblica accusa si accanisce contro Belén: trasforma l’accusa da omicidio aggravato a omicidio premeditato di un familiare stretto e chiede otto anni di carcere. Richiesta accolta dai giudici del processo di primo grado.

Belén attende, ora non più in carcere, che la Corte suprema di Tucumán si pronunci sul ricorso contro la condanna.

Finora oltre 120.000 persone hanno sottoscritto la richiesta di Amnesty International alle autorità argentine affinché Belén sia prosciolta e la sua condanna venga annullata.

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