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A Beirut cultura visiva ma non solo

di Vittorio Urbani*, per SiriaLibano

 

Nel giorno inaugurale di Home Works VII, l’importante forum di cultura visiva contemporanea ma non solo, Beirut è stata scossa da un duplice attentato costato la vita a più di 40 persone.

Home Works è creata a irregolari ritmi biennali dall’Associazione libanese per le Arti plastiche Ashkal Alwan, diretta da Christine Tohme, peraltro recentemente nominata curatrice della prossima Biennale di Sharja, un meritato, importante riconoscimento.

Beirut è importante scena di arte contemporanea e moderna per questa parte del mondo da molti decenni: nonostante la guerra civile (1975-90), nonostante i campi profughi palestinesi – i due più noti sono quelli di Sabra e di Shatila – nonostante le varie guerre con Israele, nonostante l’oscura influenza della Siria, nonostante Hezbollah, nonostante la crisi dei profughi siriani e, ora, il nuovo terrorismo di Isis che si affaccia al Paese. Manca qualcosa?

La capacità di rinascita e di sopravvivenza di questa città non ha eguali. Si potrebbe dire che se non esistesse Parigi, la modernità sarebbe stata inventata qui. Non teoreticamente, naturalmente. Ma nella attitudine coraggiosa al fare (e al rifare e rifare ancora).

Inutile lamentarsi del poco rispetto alle belle ville libanesi che si abbattano per i nuovi anonimi grattacieli: Beirut può essere viva solo così. È il contrario di Venezia, capitale del conservatorismo architettonico e culturale della Galassia.

Ho visto coi miei occhi pochi anni fa operai con seghe elettriche “limare” lo zoccolo di un tempio romano nella zona di Solidere perché “sporgeva” sul piano di una nuova strada. Un passante si tirava capelli dalla disperazione gemendo in francese “Perché noi libanesi siamo così?”. Ma alla mia proposta di chiamare i giornalisti usando il mio cellulare, non ha neanche risposto. Se ne è andato via, sempre ululando.

Dicevamo Home Works forum di arti visive ma non solo, perché al di là del formato mostra, fanno importante parte del programma tavole rotonde, letture, performance, teatro e danza. Ambiti che spesso si mescolano, come nell’Ode to Joy, una pièce teatrale al Theatre Tournesol per regia dell’artista Rabih Mroué – una lucidissima presenza della cultura visiva – che anche partecipa al lavoro come attore.

Riguardo alle arti visive, a parte diversi luoghi sparsi per la città, due delle sedi principali sono il Beirut Art Center – fondato da Sandra Dagher e Lamia Joreige, ora diretto da Marie Muracciole – e la sede di Ashkal Alwan, diretto appunto da Christine Tohme che è anche chief curator della programmazione di Home Works, insieme a Frie Leysen per il programma di performance, e Bassam el Baroni per le arti visive.

Le due sedi sono vicine, in edifici di una zona stranamente costituita da un bizzarro mix di officine, carrozzerie, rappresentanti di auto (per raggiungerla, bisogna dire al tassista di portarvi al incrocio “Chevrolet”, così chiamato per il rivenditore di auto americane) sovrappassi autostradali pericolosi mortali da attraversare (ma io sono sopravvissuto!) e nuovi grattacieli dai nomi tipo Platinum Towers, con terrazze alberate – questa degli alberi sui grattacieli è uno delle ultime ossessioni degli architetti – e finestroni di vetro. Chi mai pagherà milioni per un appartamento con vista su autostrada e sfasciacarrozze? Mah? A vederla, sembra una zona non riqualificabile decentemente nemmeno in cento anni, tantomeno trasformabile a breve termine in area residenziale di lusso.

Tornando alle mostre, esse svolgono il proprio discorso restando in qualche modo nel campo del concettuale, con proiezioni e interventi visivamente minimi o molto legati alla lettura di testi esplicativi. Una eccezione, al Beirut Art Center, il divertente video Parliament, della turca Inci Eviner.

Ad Ashkal Alwan nella mostra a piano terra, Martti Kalliala ha creato ExoStead, uno stage a tre gradoni, tra il teatrino e l’espositore di un fioraio di strada (troppo piccolo per essere l’uno, troppo grande per essere il secondo). Il depliant informativo di Home Works ci informa che i Seastead sono spazi artificiali costruiti sul fondo marino, fuori da giurisdizione nazionale ma reclamati come tali.

L’ExoStead sarebbe quindi come uno spazio immaginario di libertà? Ma ho il vizio di dire ciò che vedo. Alcune piante maltrattate, senza vaso, aggredite da una furia che non sappiamo da cosa originata, sono alla meno peggio disposte sullo stage: non sono piante che un arrangiatore floreale metterebbe insieme: Strelitzia reginae, Pothus species, Coleus hybridus ed Asparagus species. Non sono tutte piante da serra né tutte piante da giardino. Non stanno nemmeno bene insieme. È quindi un banco di fioraio colpito marginalmente da un attentato suicida? O un teatrino, scena di una misteriosa azione violenta? La coerenza che tiene unite le piante-attrici è solo quella loro qualità di essere maltrattati esseri viventi.

Sul vasto tetto a terrazza di Ashkal Alwan è la grande installazione Blazon di Marwan Rechmaoui. Appese ad alti fili come da bucato, gualdrappe, stendardi e “stemmi” in tessuto portano ricamati i simboli a cui si aggrappano le mille piccole e grandi realtà di questa società: i blasoni che fanno la diversità di Beirut attuale. Sono gli edifici dei ministeri, la Ford, il Mac Donald’s; facce sorridenti di politici uccisi o viventi ancora; scritte in arabo relative a istituzioni, partiti eccetera.

Come se solo da questo caos si ritrovasse una unità e sorgesse, come infatti è, Beirut. Complessa, e condannata a lotte interne senza fine. Bellissima perché imperfetta (questa frase commento e responsabilità mia). A sigillo di questo importante lavoro ricordo la orazione inaugurale del primo Home Works, tanti anni fa: il poeta Adonis – tra i massimi poeti viventi in lingua araba – nella sua critica di Beirut la ammoniva a trovare una strada diversa, una strada propria a quella che la fa rimbalzare tra la Chiesa e la Moschea. Parlando di religioni, Adonis anche parlava di idee politiche e confessionali.

Ancora al Beirut Art Center il punto lirico forse più alto è il nuovo film breve, girato in un argenteo bianco e nero, di Francis Alÿs, The Silence of Ani, già visto in première alla Biennale di Istanbul dello scorso settembre. Un lavoro celebrativo della scomparsa città armena di Ani (distrutta dai Selgiuchidi già nel tardo medio evo). Ani – o meglio le sue affascinanti rovine – ancora sorge su aride colline erbose, senza segni di presenza umana, neanche un albero in vista.

Tutto sembra deserto, persino il cielo è vuoto. Nell’erba alta percossa dal vento, presenze fuggevoli si vedono qua e là: diresti animali che si nascondono. Qualche sibilo e fischio di uccello. Poi niente. Ancora, le fugaci presenze riappaiono, brevi corse tra l’erba, si comincia a intuire trattarsi di ragazzi. Capelli mossi dal vento, come gli steli delle erbe. I giovani nella loro corsa vanno verso l’alto della collina: paiono soldati alla conquista, e dopo brevi avanzate ancora si acquattano.

Il canto degli uccelli aumenta di intensità e di numero di voci, raggiunge un climax. Qua e là si comincia a capire che i ragazzi hanno dei richiami da uccellatori: il cielo è infatti vuoto, il canto è un richiamo d’artificio, un affascinante antico trucco. Lentamente vedi i ragazzi e le ragazze cadere esausti o addormentati fra le rovine: ed è una disagevole, strana bellezza fatta di carne giovane, fiori selvatici, severe forme architettoniche. Quasi una barocca Natura Morta. Solitudine, e ancora silenzio per mille e mille anni. È soltanto perfetto.

(Foto: The Silence of Ani di Francis Alÿs, Beirut Art Center
Blazon di Marwan Rechmaoui ExoStead di Martti Kalliala, Ashkal Alwan)

* Vittorio Urbani è curatore di arte contemporanea; e il direttore artistico di Nuova Icona, Venezia.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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