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"13 Hours": l’apologia (non retorica) del guerriero sacrificabile

Uscito un anno fa nella (quasi) più totale indifferenza, 13 Hours è un decisivo passo in avanti nella filmografia di Michael Bay. In attesa di rivedere il regista californiano sul grande schermo con il nuovo capitolo del franchise di Transformers, riscopriamo questo interessante war movie

 

Libia, 2012. Dopo la deposizione del Colonnello Gheddafi il Paese verte nella più totale confusione diplomatica, mentre nella città di Bengasi operano agenti della CIA, uomini del governo statunitense e paramilitari. La sera dell’undici settembre, undicesimo anniversario dell’attentato al World Trade Center, un folto e organizzato gruppo di militanti islamici attacca prima il consolato americano dove risiede l’ambasciatore Christopher Stevens e, poi, la dépendance dell’intelligence. Senza supporto militare e aereo sei uomini del GRS, guardie di sicurezza della CIA di cui fanno parte il comandante Tyrone “Rone” Woods (James Badge Dale) e Jack Silva (John Krasinski) tentano il tutto per tutto, cercando di respingere l’attacco fino all’arrivo dei rinforzi.

Negli ultimi venti anni si è assistito a una evoluzione di spessore del war movie, di quel genere bellico pronto ad esaltare, con elevati dosi di propaganda ed eroismo, le gesta dei combattenti militari nei più svariati fronti di guerra. Se sul finire degli anni Novanta ci ha pensato Steven Spielberg a rendere – iperrealisticamente – l’idea della guerra come carneficina sporca, sanguinosa e mortale con Salvate il soldato Ryan mentre qualche anno più tardi si sono aggiunti Ridley Scott, Kathryn Bigelow e Clint Eastwood con i rispettivi Black Hawk Down, The Hurt Locker, Zero Dark Thirty e American Sniper a questi, in ordine di arrivo, si aggiunge per ultimo uno tra i più controversi e (spesso) malvisti registi di Hollywood e dintorni, ovvero quel Michael Bay etichettato come “anticristo” dell’industria cinematografica americana. Eppure il regista californiano questa volta sembra zittire i suoi detrattori, dimostrando di essere capace di dirigere un film di spessore come 13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi (id., 2016).

Tratto dall’omonimo saggio di inchiesta di Mitchell Zuckoff 13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi è – senza fronzoli e tante cerimonie – un film appartenente al 100% al genere bellico. Messe da parte le sue megalomanie a base di ipercinetiche esplosioni, edifici rasi al suolo e personaggi che trasudano machismo e testosterone gratuito, questa volta Bay fa sul serio mettendo in gioco anima, corpo e macchina da presa al servizio di un’altra ma recentissima e sanguinosa pagina della storia contemporanea statunitense e globale. Nel raccontare le vicende di quella fatidica e maledetta notte libica il regista non ricorre a spettacolarizzazioni né tantomeno a banali sottotesti diretti e indiretti alla propaganda politica. Semmai 13 Hours è tutto il contrario di quanto ci si aspetterebbe da un prodotto del tipo. Il dodicesimo lungometraggio del papà di Bad Boys e Transformers ricostruisce, fin dalle battute iniziali, il clima geopolitico di un Paese in rovina, lacerato dalla guerra civile e dalla Primavera araba che avrebbe dato vita, di lì a poco, al più pericoloso gruppo terroristico della storia, per poi tuffarsi, attraverso un saggio utilizzo embedded della steadicam e dell’iperrealismo della regia digitale, nella cronologia degli avvenimenti di quell’undici settembre libico. 13 Hours è un’opera cinematografica che non vive di entertainment ma, semmai, si concentra a raccogliere aspetti psicologici e umani di chi, durante l’attacco, ha dato il massimo da se stesso per tredici ore di fila arrivando perfino a perdere la vita.

Se c’è un giusto merito da riconoscere alla pellicola di Bay è quello di non esaltare l’infallibile sistema governativo americano ma, piuttosto, criticare quest’ultimo e le forze armate per non aver alzato un dito in difesa di chi, abbandonato in un Paese ostile, ha dovuto contare solo sulla propria forza e volontà. Si potrebbe imputare a 13 Hours di essere un elogio verso la figura dei contractors, di quegli ex veterani dell’esercito e delle forze speciali ritornati sul campo come operativi delle compagnie private o, parimenti, della macchina bellica statunitense. Ma, con lo scorrere dei minuti, la convinzione che 13 Hours sia l’ennesimo sfoggio di americanismo e militarismo viene meno, lasciando il posto alla messa in immagini di un letale, lungo, violento e notturno combattimento in cui assediati e assedianti sono avvolti da esplosioni, proiettili e vampate di fuoco. Bay riesce a cogliere il senso della guerra e a ricostruire il campo di battaglia sia in orizzontale sia in verticale, con gli eroici sei contractor molto più tecnologicamente equipaggiati rispetto al nemico ma altamente in difficoltà e che stanno lì, in basso, a combattere stoicamente e con forte senso di abnegazione pur di salvare le vite dei loro connazionali mentre dall’alto, attraverso le telecamere ad alto potenziale degli UAV e dei Predator le gerarchie militari assistono, da migliaia di chilometri di distanza, alla battaglia tra le forze in campo.

Crudo e teso war movie 13 Hours: The Secret Soldiers of Benghazi è l’apologia (non retorica) del guerriero sacrificabile, di quei combattenti che non cercano gloria e neanche di portare lustro ai loro trascorsi bellici. Che siano ex Marines, Rangers o Navy SEALs a Michael Bay non importa in quanto non è la divisa o la preparazione al combattimento ad avere rilevanza, piuttosto è quel forte senso di unione, di reciprocità del guardarsi le spalle a vicenda che sfocia in quel legame di brothers in arms, di “fratelli” (ancora una volta) in armi. In maniera simile ai bigelowiani The Hurt Locker e Zero Dark Thirty per quanto concerne l’assuefazione alla guerra e l’attaccamento alla professione ma più coevo al Black Hawk Down di Scott e al Lone Survivor di Peter Berg per via della lotta alla sopravvivenza che lo permea, 13 Hours sospende il giudizio (come in parte accade nell’American Sniper di Eastwood) sul giusto e l’ingiusto della guerra, lasciando l’unica certezza che tutti gli inferni (quel forte richiamo all’azione e al pericolo in zone calde e ad alto rischio) e i paradisi (la voglia di ritornare a casa, sani e salvi, dalle proprie famiglie) sono dentro chi combatte on the camp tra la polvere e il sangue rispetto a chi, seduto comodamente e al sicuro, “vive” il fronte in diretta su un monitor.

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