Castelfranci sotto i colpi dei famelici amministratori del dopo terremoto
Si
premette che quanto segue non è assolutamente rivolto alla persona in
quanto tale bensì ad un ruolo politico che per ciò stesso è di natura
pubblica e soggetto quindi alle opinioni del cittadino che ha
liberamente investito quella persona di quel ruolo. Sono opinioni e
vanno rispettate senza prevaricare nelle risposte ma ragionando con
riflessioni legittime, fermo restando che siano a parlare i “fatti
accaduti” con documenti ineccepibili in sintonia con la verità, non
arzigogolando nei sofismi e nei cavilli pretestuosi.
E’ il metodo
storico: né più né meno. Proseguiamo dicendo che il centro antico del
borgo non è più esistente per volontà scellerata della maggioranza
eletta nel giugno 1980. La famigerata questione dibattuta nel consiglio
comunale del settembre 1981 riguardò una fantomatica via di
collegamento per la quale occorreva eliminare il vecchio abitato lungo
la rupe del fiume Calore: in particolare i vicoli Pendino e Cancello
declinanti verso il piano dell’Ortora.
Per altre antiche abitazioni in via Calabrese: pretesti e ricatti.
Ogni
pretesto, ogni cavillo fu tentato onde poter demolire le antiche
abitazioni del centro storico: fino al ricatto. Per testimonianza
diretta cito la risposta classica (del sindaco, dell’assessore o del
tecnico improvvisato e ignorante sul tema del recupero storico e
artistico): non concederemo il contributo al ripristino di vecchie
abitazioni destinate poi a crollare. La seduta principiò alle ore
sedici in punto: vi fu il rapporto di un architetto repentinamente
impugnato da alcuni cittadini ivi presenti. La minoranza subito
espresse opinione contraria onde evitare lo scempio della memoria
storica .
Una documentazione esaustiva della disputa appena trattata è contenuta nel libro di Alessandro Di Napoli, Castelfranci tre anni dopo, Tipografia Irpina, Lioni (Av) 1984, pp. 111-113. L’autore giustifica le posizioni della maggioranza: licet, quod cuique libet, loquatur (Cic.).
Il dibattito in quella grigia aula delle adunanze fu quanto mai concitato e a niente valsero le arringhe dei minoritari: il destino del vecchio paese era di già segnato. Si riproduce un significativo brano del discorso che enunciò il consigliere di minoranza Angelo Bocchino.
«E’ inconcepibile distruggere...il centro antico per costruire strade...inutili... Nel prendere visione…della bozza...m’è venuta in mente la Sicilia. Ritengo [quanto segue]: la maggioranza s’é affidata a tecnici che intendono risolvere il problema solo da un punto di vista progettuale trascurando i motivi storici, sociali e affettivi. Per questo non sono favorevole...». Parole profetiche.
Si confronti l’archivio del
Comune di Castelfranci, Registro delle deliberazioni comunali,
settembre 1981. V’è in architettura una questione di straordinaria
importanza, diremmo “decisiva” per l’uomo: ciò che l’ambiente può
causare nei comportamenti sociali (il determinismo dello spazio).
Il
concetto non è di comprensione difficile e può spiegarlo un semplice
paragone: si pensi il modo di vivere in una grande periferia urbana e
quello in un vicolo di un paesino. Si confronti pure Luisa Bonesio,
Geofilosofia del paesaggio, Mimesis editore, Milano 1997.
Perché
si addivenne a quella turpe volontà? perché mai annichilire quelle
vestigia di lontana rimembranza? fu solo bruta ignoranza del Bello? il
terremoto del novembre 1980 fu evento incontrollabile, seguirono
“distruzioni incontrollate”: ovunque si distruggeva senza discernimento
di sorta.
Si ricordi l’emergenza progettuale e legalizzata da una
legge speciale: la numero 219 del 1981. Si aggiunga la legge n° 187 del
1982 che riduce i poteri delle Soprintendenze a tutela del patrimonio
storico e identitario: un capolavoro dietro l’altro. Talvolta si
giustifica il Legislatore: licet, quod cuique libet, loquatur (proprio
così come diceva Cicerone).
Talaltra si giustifica dicendo: i
cittadini vogliono la comodità. Ebbene: e chi la nega? e allora: si
costruisca il nuovo ma non si distrugga il vecchio. Dicesi che di
artistico v’era ben poco da salvare. Ma la questione è un’altra: è
questione d’ignoranza. La nostra tradizione non era solo estetica:
v’era un borgo in cui, per l’umano spazio raccolto in una architettura
armonica, si corroboravano legami arcaici, sentimenti, vicinanze
familiari, conoscenza e solidale colloquio tra generazioni: vi pare
poco? In qual maniera alla calamità naturale si congiunge il disastro
legalizzato? La legge n° 219 sottrae il 20% dal contributo dei
cittadini che intendono ripristinare la vecchia abitazione. Ecco la
chiave di volta. Ecco la manna per i famelici amministratori. Si
promette, si vagheggia, si lascia il luogo natio. E così come detto il
destino del borgo antico è segnato: l’intrigo politico, i reboanti
proclami della villa signorile, la furberia del contributo conforme al
numero di famiglia, l’utopia del paradiso venturo riducono il paese a
immagine e somiglianza di periferia urbana per chi lo rivede e poi ne
ricorda l’antica bellezza. Si riconosca comunque l’intuzione del Bello
o, per non usare parole ridondanti, un recupero intelligente benché non
sia tanto l’intelligenza quanto la conoscenza estetica alla base di
certe iniziative benemerite. Si pensi ad esempio Rocca san Felice,
Nusco, Torella, Gesualdo, Sant’Angelo, Guardia, Castelvetere, nonché la
splendida Dogana aragonese di Flumeri: architetture e bellezze
ritrovate. In alcuni borghi della verde Irpinia, vuoi per volontà di
popolo vuoi per lungimiranza di sagge autorità culturalmente preparate,
sono riportati agli antichi splendori: monumenti, palazzi, castelli,
monasteri, conventi, episcopi. Si recupera un gusto estetico
concomitante quell’economia turistica che a noi appartiene per natura e
costume. «La fortuna d’Italia è inseparabile dalle sorti della Bellezza
di cui ella è madre» diceva Gabriele d’Annunzio ne “Il libro ascetico
della giovane Italia”. Perché Castelfranci, borgo medioevale come il
nome stesso racconta, non può rivendicare la sua millenaria tradizione?
perché cotanto scempio? perchè quel disastro nel bosco di Baiano?
perché la bruta mania della distruzione barbarica?
«Nell’area del cratere si è recuperato pochissimo degli antichi insediamenti.
Alle
distruzioni della natura si aggiunsero quelle “progettuali”: contenute
negli strumenti urbanistici e legalizzati dalla legge speciale n° 219
del 1981.
Fu conseguenza della miopia amministrativa
generalizzata: ignorando il valore delle preesistenze e nell’enfasi del
consumo finanziario si è annientato un patrimonio storico
architettonico di grande valore culturale e ambientale. La distruzione
avvenuta e la cancellazione di ogni segno della civiltà altirpina
penalizzano ancora una volta il rilancio del nostro territorio.
La
legge numero 219 ha premiato la distruzione e la ricostruzione ex novo
a discapito del recupero e del restauro: si è abbattuto il patrimonio
preesistente mediante un incentivo economico legislativo. Cioè: tutti
quei cittadini che intendevano recuperare o riparare la prima
abitazione erano penalizzati con una decurtazione del 20% sul buono
contributo rispetto a quelli che diroccavano e ricostruivano
beneficiando di sovvenzioni per il cosiddetto adeguamento al numero
familiare, superfici non residenziali e autorimesse.
Una
concezione perversa: i proprietari con un incentivo in denaro
abbandonavano il centro storico sperando in condizioni di vita migliori
nelle ville dei cosiddetti piani di zona. E così centri abitati
trasferiti in lontananza con aumento abnorme di luoghi urbani
desolanti. La legge n° 187 del 1982, modificando la n° 219, ridusse
ulteriormente i poteri delle Soprintendenze impegnate nella
salvaguardia dei beni architettonici e non si potè esprimere vincoli
sul patrimonio minore o privato. In breve: ragioni di ordine politico,
amministrativo e culturale furono alla base di legislazioni distruttive
[e di saccheggio] per un ventipercento in più. Al termine del processo
ci ritroviamo una moltiplicazione dei luoghi abitativi, sono diroccati
i centri storici e costruiti i piani di zona. Cioè: costose periferie
urbane con l’inevitabile degrado sociale, tornaconti e tangenti. Si
pensi: Morra, Lioni, Bisaccia, Castelfranci. Un senso di “non finito”
caratterizza quello che rimane del vecchio e del nuovo. Si pensi lo
spreco del pubblico denaro in Laviano. Ma si registrano casi di
recupero intelligente: Guardia, Rocca, Gesualdo, Sant’Angelo, Nusco,
Sant’Andrea di Conza. Tranne poche eccezioni, ad un quarto di secolo
dal terremoto, in tutti gli altri Comuni non risulta definito né quanto
rimane del centro antico né quanto si è cominciato ex novo. Nei luoghi
storici rimane il vuoto lasciato dagli edifici trasferiti: sono
presenti ruderi e sterpaglie. Si aggiunge: il recupero di alcuni borghi
per fine turistico tra i quali anche Castelvetere dimostra che il
medesimo costa meno di una nuova costruzione» .
L’ultimo
capolavoro del Legislatore si chiamò con seguente terminologia:
ristrutturazione urbanistica. Cioè: coloro i quali intendevano rimanere
nel centro storico ottennero il diritto di farlo pure ampliando
superfici edilizie accanto o al di sopra delle proprie particelle.
Risultato: in teoria il recupero, in pratica nuova edilizia tra le
vecchie tipologie. Si immagini l’obbrobrio. O meglio: lo si osservi.
La
caratteristica di una comunità è il forte legame al piccolo ambiente in
cui si vive, al suo tempo ciclico, alle stagioni, alle costumanze: è
cosmos (ordine) che riunisce gli intenti, accoglie l’armonia, espelle,
rifiuta l’emarginazione del singolo. Non v’è posto per la solitudine,
l’individualismo apolide, per l’angoscia dello spazio universale,
ampliato, smisurato, desolato. La comunità è appartenenza, è come un
cerchio sacro dove si è protetti da chi si conosce e si riconosce, dove
tutto è sempre identico a se stesso e diverso da ciò che esiste
altrove. Ogni comunità possiede una cultura, un patrimonio spirituale
proveniente dagli antenati, un luogo determinato. Permane nella
distinzione con altre comunità egualmente sacre perché diverse nelle
abitudini e nello “spazio”.
Ma quando uno straordinario evento
sopraggiunge devastando il cerchio sacro si è come trasportati nel caos
della confusione, dell’indistinto, dell’irriconoscibile,
dell’inconoscibile. Così è la periferia urbana: non si conosce e non si
riconosce l’identità, la storia di una vita, quella di una cultura
amica, di una civiltà comune e condivisa. E dove sarà più il genius
loci? e lo spazio a misura d’uomo? e la dimora dove si nacque? e il
vicolo dell’infanzia? e la vita sociale? e gli affetti più cari? e quel
che i latini dicevano "comunitas"?
Questo accadde negli infausti
anni ottanta: si annullò il topos (spazio) chiuso e limitato per dare
esistenza al topos ampliato, orbo di limiti e confini, privo di “spazio
umano”. Si cancellò il passato, l’antico, l’appartenenza, la memoria.
Nella distruzione del centro storico l’unico metro di giudizio fu il
calcolo: la misura, la quantità, il potere, il denaro. E quale evento è
propizio come quello straordinario per consentire la corruttela
politica, il losco affare del predone, l’opera inutile, il numero
falsificato dei Comuni colpiti? di quì il ridurre al nulla separando
ciò che per essenza è unito: uomo e ambiente, uomo e comunità, uomo e
tradizione, uomo e spazio, uomo e bellezza, uomo e storia, uomo e
cultura. Nel concetto summenzionato rientrano la volontà famelica,
l’incapacità, l’ignoranza, di chi è deputato al governo della cosa
pubblica: non può essere altrimenti. Si richiama un concetto: v’è in
architettura una questione di straordinaria importanza, diremmo
decisiva per l’uomo: ciò che l’ambiente può causare nei comportamenti
sociali (il determinismo dello spazio). Il concetto non è di
comprensione difficile e può spiegarlo un semplice paragone: si pensi
il modo di vivere in una grande periferia urbana e quello in un vicolo
di un paesino. E quindi: se degrado urbano allora decadenza sociale.
L’imbarbarimento antropologico fu ulteriormente aggravato da un’altra
“geniale” idea della classe politica democristiana: il covulso,
maldestro e irrazionale progetto dell’industria nelle zone tortuose di
montagna.
Come si potè immaginare una cosa del genere all’interno
di zone o territori impervi dove a stento già i primi soccorsi nella
fase dell’emergenza riuscirono a varcare? come mai si ignorava che
l’economia del Meridione fosse di prevalenza agricola, turistica e
artigianale?
Tutto appare come un paradosso ma tant’è: spreco,
abiezione, ruberia, malaffare, abuso, falso ideologico in atto
pubblico. Cosa c’è di più obbrobrioso come lo speculare sulle disgrazie
umane? ciò nonostante i politici locali e nazionali furono di ben altro
avviso. Il Mezzogiorno d’Italia con l’Irpinia in particolare fu il
luogo del più cinico potere clientelare con rapporti di forza tale da
costituire uno dei più vasti apparati di consensi tra le masse popolari
riducendone la libertà di scelta ricattando le coscienze di persone
indigenti e per ciò stesso deboli e indifese. E si trattò di un potere
politico e camorristico al tempo stesso: forte, tenace, invincibile,
indistruttibile che uscì indenne da una lunga serie di processi e
inchieste giudiziarie. Nel 1988 Montanelli dalle righe del quotidiano
“Il Giornale” tratta la gestione illecita del pubblico denaro assegnato
alla ricostruzione in Irpinia da parte di alcuni importanti esponenti
politici di quel tempo: ovviamente democristiani per la maggior parte.
E ancora Martini scrive su “Panorama” un articolo sul medesimo
argomento. Per indagare su codesti illeciti fu istituita una
commissione parlamentare presieduta dal democristiano Oscar Luigi
Scalfaro: futuro Presidente della Repubblica.
E cosa accadde? ciò che era prevedibile.
Ricordando
che fra le persone coinvolte figuravano i nomi di Ciriaco De Mita,
Cirino Pomicino, Enzo Scotti, Antonio Gava, Francesco de Lorenzo e il
commissario straordinario Giuseppe Zamberletti: l’inchiesta ebbe fine
con la prescrizione dei capi d’accusa e la totale assoluzione degli
altri imputati.
Il presente documento esprime altresì la
rimembranza e l’avvertita nostalgia per la distruzione del centro
antico ancor più bello nel ricodo. Ma quali furono le cause che negli
anni ottanta deformarono le sembianze del vecchio paese? non lo
sappiamo né vogliamo saperlo. Quando il barbaro disastro è compiuto a
che serve la conoscenza delle cause? e se chi non è oblivioso chiede, è
già pronto il sofisma del politicante: l’astuta abilità di gabbare il
povero cittadino che di questioni amministrative ben poco sa. Ma i
sofismi, cioè gli argomenti fallaci, sono parole: la bruttezza del
paese invece è una cosa che di leggieri si vede. Non esitiamo a
definirlo “brutto” giacché privo di ogni elemento estetico in armonia
con la geografia irpina che tanto ricorda quella umbra e toscana: non
esitiamo a definirlo “brutto” perché rimesso nelle maldestre competenze
di progettisti ignoranti e costruttori improvvisati. Quando si studia
l’architettura dei borghi medioevali si entra in questioni a tal punto
complesse che non può decidere un sindaco o un ingegnere qualunque. Lo
diciamo per ubbia? no. In questi ripetuti accenni al patrimonio
identitario, fuori dal proposito di una semplice informazione storica e
del comune sentire, non si consideri nessuna polemica denigratoria
verso istituzioni in generale o persone in particolare. Ma cosa vuol
dire “patrimonio identitario”? è tutto ciò che l’uomo crea. E’ tutto
ciò che la persona apprende con i sensi e l’intelletto da quando
principia la sua vita. E’ tutto ciò che amorevolmente la circonda:
famiglia, abitudini, casa, borgo, città. E’ tutto ciò in cui si
ritrova, si riconosce, “si identifica”. E’ tutto ciò che nel corso del
tempo la rende quella che è da ogni punto di vista: affettivo,
psicologico, culturale. L’uomo non è creatura statica: pensa,
progredisce, inventa l’irrinunciabile, quanto senza di cui muore nello
spirito. Allorché si distrugge un’opera d’arte si violenta il bello,
allorché si distrugge la tradizione si distrugge la persona. E la
politica nel significato nobile del termine si allontana dal suo campo,
non esplica la sua autentica funzione e disattende ciò per cui essa è
portatrice di progresso umano. La totale assenza di fondamento
culturale, la poca influenza che il sapere esercita sulla politica
consentono alle questioni pratiche e sociali di essere appannaggio di
un ceto di bottegai giocoforza incapaci di una visione più in là delle
circostanze immediate. E così “la politica...diventa una mediocre
faccenda composta di piccole cose quotidiane, più vicina...alla pratica
minuta degli affari di un mercante che non alla complessità vasta e
concitata della storia. E così...ci sono i politicanti della giornata
spicciola, ignoranti, grossolani e prosaici, miserabili e inutili,
totalmente privi di autorità morale e civile e solo intenti a ricamare
la piccola bugiola della loro vita”. Par che questa citazione di
Prezzolini dia un concetto chiaro e preciso di quanto via via si è
detto nel documento: accanto all’ignudo racconto una sua comprensione
critica che è il sogno dell’arte (la bellezza) sotto i colpi del
malaffare. Sulle rovine un unico segno è riposto: il “niente” che
dichiara la fine di una tradizione, di una civiltà, di una comunità. Se
ciò non fosse, che significato conterrebbe il semplice narrare?
Ogni
accadimento, nel bene e nel male che produce, porta con sé una ragione:
e quì, nelle cause, si ritrova o la gratitudine o la protesta, o
l’onore o la disonestà, o buon governo o il contrario. E perché abbiamo
enunciato le parole “onore” e “disonestà”? perché la cultura priva di
morale: talvolta è perniciosa ancor più dell’ignoranza. Perché la
funzione della cultura, in tutte le questioni politiche e pratiche,
consiste anche nel corroborare la coscienza umana dinanzi agli impulsi
miserrimi del lenocinio e al contagio quasi inevitabile della
corruttela. Ecco perché è possibile nonché doveroso determinare
qualsiasi movimento di opinione che sovverta l’arroganza di chi ancora
spadroneggia. Per nostalgia? no: talvolta non è saggio restaurare, ma
lo è sceverare, discernere il passato, buono e cattivo, bello e brutto,
traendone tutti gli insegnamenti possibili. E mai obliando eventi e
persone disoneste e miserabili. Per maggiori conoscenze e
approfondmenti si legga il libro di Ippolito Negri, La grande abbuffata
e le mani rapaci sull’Irpinia del dopo terremoto, Milano 1996.
AgoraVox utilizza software libero: SPIP, Apache, Ubuntu, PHP, MySQL, CKEditor.
Chi siamo / Contatti / Avvertenze legali / Protezione dei tuoi dati personali / Regole della moderazione