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Cosa c’entra il Veneto con la Crimea? C’entra, c’entra…

Chiarisco subito: Veneto e Crimea hanno ben poco in comune, a parte il fatto di essere regioni europee, e non ci sono fili diretti fra la crisi di Crimea e lo sgangherato tentativo dei separatisti veneti (che, a giudicare dalla dichiarazione del loro capo, “Sono prigioniero di guerra”, più che altro, esigono un immediato tso).

Ma c’è un problema che le accomuna, così come la Catalogna, la Scozia, la Bretagna, paesi Baschi… Sono tutti casi in cui si invoca l’autodeterminazione dei popoli per sancire secessioni. In qualche caso (Scozia, Catalogna, Euzkadi) per proclamare un nuovo Stato indipendente, in altri caso per passare ad un altro Stato sovrano (Crimea), in altri, come il Veneto, non si capisce bene per cosa. Ma il punto è questo: chi è il titolare del diritto di autodeterminazione? Il Popolo, ovvio. Ma cosa definisce “il popolo”?

Gli avversari dell’annessione della Crimea alla Russia hanno scritto scandalizzati che non esiste un diritto alla secessione e che i confini statali vanno rispettati (perché: sono eterni? Dove sta scritto?). Vice versa, gli indipendentisti di tutto il Mondo invocano il diritto all’autodeterminazione. Ma come stabilire i confini del corpo elettorale che deve decidere?

Perché, ad esempio, se nel referendum della Crimea a votare fosse stata anche qualche regione circonvicina a maggioranza ucraina, i risultati non sarebbero stati gli stessi. E, dunque, occorre delimitare il soggetto decidente, escludendone altri che non vi appartengono. Ma occorre delimitare anche verso il basso. Ad esempio, i separatisti veneti ritengono di poter fare un referendum in cui votano i soli veneti (lasciamo perdere se per veneti si intendono quelli che hanno residenza nella regione o chiunque abbia una appartenenza etnica più o meno certificata) e le stesse cose sostengono catalani, baschi, scozzesi, bretoni ecc. Ma se domani il Veneto meridionale (Rovigo e Verona) chiedesse di staccarsi per fare un suo stato indipendente o passare di nuovo con l’Italia, questo referendum sarebbe ammissibile?

Perché, poi potrebbe essercene uno che separa Rovigo da Verona, poi uno che divide la libera città di Verona dal contado e via spacchettando: a Siena sarebbero capaci di fare il referendum di contrada, a Napoli di condominio.

Ovviamente esagero, ma dove si arresta la soglia al di sotto della quale non c’è soggetto abilitato a chiedere l’autodeterminazione? Quando l’Urss finì, qualcuno prospettò l’ipotesi dello status di città libera per Leningrado-San Pietroburgo. E con quale criterio possiamo fissare la soglia? C’è un limite, per così dire, “naturale” oppure dobbiamo pensare ad una costruzione artificiale di natura politico culturale? Ma poi chi decide della fondatezza di questa costruzione? Bossi si inventò la Padania che era una manifesta patacca di cui non era possibile discutere seriamente.

Nel XIX secolo si affermò l’idea dello Stato-nazione, per cui, tendenzialmente, ad ogni Stato doveva corrispondere una Nazione e vice versa. E sorse il problema di definire cosa fosse una nazione. Il dibattito ebbe carattere tutt’altro che teorico, come nel caso italiano, nel quale a dimostrare che l’Italia non è solo una “espressione geografica”, non furono tanto le pur nobili argomentazioni dei congressi degli scienziati italiani, quanto le barricate milanesi, le baionette sabaude ed i mille irregolari di Garibaldi. La critica delle armi, come ci ha insegnato Marx, è sempre più perentoria ed efficace dell’arma della critica.

E la questione esplose in tutta la sua forza in occasione dell’annessione di Alsazia e Lorena al Reich tedesco, nel 1870, che innescò il dibattito tra francesi e italiani da una parte e dall’altra i tedeschi. Come si sa, questi ultimi giustificavano l’annessione con la concezione della nazionalità incosciente, che per caratteri naturali, come il “sangue” e il “suolo”, stabilisce fisicamente l’identità di un popolo. Questa, sostenevano, è anteriore e superiore a ogni volontà di riconoscersi in una nazione (insomma. “tu sei tedesco, anche se non lo sai”). All’opposto, gli italiani sostenevano il principio della decisione volontaristica, da cui deriverà più tardi il principio delle nazioni fondate sull’autodeterminazione dei popoli che sarà sancito dalla Società delle Nazioni. Posizione che Ernest Renan illustrerà in una celebre conferenza del 1882, sostenendo che la nazione nasce dalla decisione di “stare insieme” per cui la nazione è “un plebiscito di tutti i giorni”.

La nazione, sostengono alcuni, è un patto che sorge da una costruzione linguistico-culturale, che a sua volta, però, rimanda ad una base oggettiva e non solo ad una mera decisione soggettiva.

Peraltro, il confronto-scontro fra i fautori delle origini etniche e quelli delle origini linguistico culturali delle nazioni è, almeno parzialmente ripreso come dimostrano le recenti opere di Anthony Smith e Anne Marie Thiesse.

Le cose hanno poi subito un netto aggravamento nell’epoca della globalizzazione, che si era illusa di aver risolto definitivamente la questione progettando un ordinamento indistintamente cosmopolita, su cui avrebbe governato una complessa rete di poteri post statali (in fondo era questa anche l’idea che Negri esponeva in “Impero”). L’ideologia neo liberista ha immaginato un mondo retto da soli criteri economici, dove non esistono classi e nazioni, perché il consumatore non deve essere distratto da altri identificativi. L’homo economicus neo liberista è una monade iper individualista, non ha appartenenze di gruppo che ne turberebbero il comportamento di mercato. E l’ordine mondiale non ha bisogno di autorità sovraordinata a quella dei grandi poteri finanziari unici registi dello sviluppo mondiale. Agli stati spetta solo preservare –con la forza, se occorre - questo ordinamento e, per fare ciò, non è assolutamente necessaria una rispondenza fra ordinamento statale ed identità culturali differenziate, peraltro, sono destinate ad estinguersi.

Come è noto, le cose non stanno andando affatto in questo modo e si moltiplicano i segni di rigetto verso questo progetto: fondamentalismi, neo nazionalismi, particolarismi, emergono con sempre maggiore evidenza. La Jugoslavia è andata in frantumi con un atroce ciclo di guerre che avevano per oggetto la richiesta di indipendenza delle singole repubbliche e che avevano un carattere squisitamente identitario. Stesso discorso per il Caucaso. Ma, a ben vedere, anche le guerre medio orientali – nelle quali, però, la variabile petrolio ha giocato un ruolo decisivo - hanno avuto alla base il conflitto valoriale fra Occidente e paesi islamici per nulla rassegnati ad omologarsi al registro culturale propostogli.

E di conflitti religiosi o nazionali parliamo in Cina con gli Uiguri e i Tibetani, e stesso discorso potremmo fare per l’India, l’Indonesia, la Turchia… Per non dire dei violenti pogrom anticristiani in Asia ed Africa. E, se ci pensiamo bene, anche la guerra dei 60 (ma presto 70) anni fra israeliani e palestinesi, si incentra intorno alla rivendicazione di uno stato nazionale palestinese, richiesta per nulla affievolitasi nell’epoca della globalizzazione.

Allora, è esagerato dire che, i conflitti etnici, religiosi, neo nazionalisti o comunque identitari, stanno diventando una delle varianti principali fra quelli della nostra epoca?

E, di nuovo, la questione della nazionalità ha un forte impatto politico e fa emergere prepotentemente il nesso democrazia-nazione, perché non esiste popolo senza identità nazionale. A sinistra dilaga un malinteso internazionalismo (strano impasto di anarchismo, non violenza, universalismo cattolico e pura superficialità), per cui si dà per scontato che il concetto di nazione sia irrimediabilmente di destra e vada negato, per aderire ad un larvato cosmopolitismo che, di fatto, segna solo l’abdicazione di ogni alterità rispetto al neo liberismo come dimostra la sciocca polemica contro il sovranismo. Ma cosmopolitismo ed internazionalismo non sono affatto sinonimi, perché il cosmopolitismo rimuove l’dea di nazione, mentre l’internazionalismo chiama alla solidarietà fra le classi di diverse nazioni, ma, proprio per questo, postula l’esistenza di diverse identità nazionali. In fondo lo stesso concetto di classe è incomprensibile ad di fuori del contesto culturale in cui è nato.

Le classi non esistono in natura, ma sono la uno stato di fatto costruito culturalmente e poi concettualizzato, pertanto sono una idea segnata dall’epoca e dal luogo in cui si afferma. Le classi europee non sono la stessa cosa delle caste indiane, anche se, poi, la generalizzazione del modo di produzione capitalistico ed industriale ha portato alla nascita di classi anche lì dove però, la persistenza del sottostrato culturale precedente, le carica di sfumature di significato estranee al contesto europeo, determinando comportamenti sociali e politici diversi da quelli che ci attenderemmo.

Allo stesso modo, il concetto di democrazia non è declinabile al di fuori del contesto nazionale. Non è detto che un popolo con una forte identità nazionale si dia necessariamente un sistema democratico, perché può benissimo darsene uno di tipo fascista, ma è sicuro che senza nazione non c’è popolo e senza popolo non c’è democrazia.

Tuttavia, la questione si presenta in termini ben diversi dal passato: i flussi migratori, il positivo processo d’integrazione del sistema delle telecomunicazioni, con il conseguente sviluppo delle relazioni culturali, l’interdipendenza economica mondiale pongono il problema in modo molto diverso dal passato e di questo occorrerà discutere tornandoci su per molti aspetti.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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