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“Vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa”

Prima di morire, Ousmane Sylla, ragazzo di 22 anni originario della Guinea, scrive un testo sul muro della sua prigione.

(Foto di Unsplash)

La firma è il disegno del suo volto, appena accennato, più potente di qualsiasi scrittura: qualche capello, la bocca triste, lo sguardo cancellato. “Vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa”, recita.

Un testamento scritto sul muro del modulo del Centro di Permanenza per il Rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, alla periferia di Roma, dove il 4 febbraio tra le 3 e le 5 del mattino Ousmane si fa la corda, i cui resti sono ancora attaccati alle sbarre, impiccandosi all’inferriata esterna della struttura detentiva.

Poco più di 6 anni.
Questo è il tempo attraversato in Italia da Ousmane, che aveva quindi circa 16 anni quando è arrivato “nel paese della musica”.

Ousmane amava cantare. Prima di morire ha lasciato degli ultimi versi.
Sognava, guardano indietro, al suo Paese, senza poterci tornare: “Mi manca molto la mia Africa e anche mia madre”, ha scritto sul muro di quella prigione.

Un testamento che abbatte le mura del Cpr più di qualsiasi protesta, più di qualsiasi incendio.
La corda, come per Moussa e Harry, arrivati minori in Italia, trattenuti in Cpr.
Combattenti uccisi dal sistema e che ad esso si sono ribellati con il gesto estremo del suicidio.

Come Moussa, come Harry: la corda e poi il tentativo dei compagni di cella di salvarlo, l’attesa dell’ambulanza, poi l’ultimo respiro. Ousmane muore violentato dallo Stato italiano.

Ousmane si trovava da diverso tempo in stato di trattenimento: dal mese di ottobre era recluso nel Cpr di Trapani Milo poi trasferito a Ponte Galeria, con addosso un marchio di infamia. Il marchio sulla sua morte: idoneità al trattenimento. Vive quattro mesi di prigionia: ingiusta, terribile, maledetta.

Dopo la sua morte, nel CPR si alza la voce della protesta, le persone imprigionate si rivoltano, chiedono giustizia. In tutti i modi cercando di raccontare e segnalare quanto accaduto, con ogni mezzo possibile: una violenza senza fine, orribile, inaccettabile.

La mattina del 4 Febbraio in tanti protestano giustamente in nome di Ousmane: vengono incendiati materassi e divelte alcune pietre dai muri. Nel mezzo della protesta, il testamento di Ousmane è il manifesto della rivolta:

“Se un giorno dovessi morire, vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta (…)
I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro.
Mi manca molto la mia Africa e anche mia madre. Non c’è bisogno di piangere su di me,
la pace sia con la mia anima e che io possa riposare in pace(..)”

Il 5 febbraio, arriva la notizia di 14 arresti tra i rivoltosi che hanno scatenato la protesta dopo la morte del loro compagno. Come sempre, chi si batte per verità e giustizia viene represso e imprigionato. Un abominio che attraversa i tempi e i luoghi, che continua a seppellire i crimini dei nostri governi, di quelle istituzioni che accumulano cadaveri e costruiscono norme d’offesa sempre più feroci contro persone che vengono recluse senza nessuna colpa.

Ousmane, la tua canzone di libertà vola più alto di questo fetido luogo che chiamano democrazia. Oltre le barriere e dietro la curva del cuore, ancora una volta i rivoltosi nel CPR abbatteranno le sue gabbie alte oltre 10 metri, per ripetere che i Cpr vanno chiusi tutti per sempre.

Per la libertà di movimento, contro i CPR e la liberazione di tuttə lə prigionierə.
Perchè il corpo di Ousmane, come lui stesso ha richiesto, torni al più presto a casa.

Yasmine Accardo
LasciateCIEntrare, Mem.Med Memoria Mediterranea

Questo articolo è stato pubblicato qui

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