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Volcan al Blue Note di Tokyo

Una pioggia incessante, non a scrosci ma fastidiosa, non riesce in alcun modo a frenare o rallentare la silenziosa vita notturna di Tokyo. Nel lussuoso locale ricavato da un piano interrato, che riprende in più parti il logo della celebre etichetta americana, i tavolini in legno sono tutti lunghi e stretti e riproducono in rilievo ognuno un paio di titoli famosi, per la gioia dei collezionisti, che per un’edizione originale possono arrivare a spendere cifre non impossibili, seppur molto alte.

Due set quotidiani, il primo alle 19, il secondo alle 21 e 30, durante i quali si può bere, cenare e magari ritrovarsi assieme ai colleghi d’ufficio dopo una lunga giornata di lavoro. Le luci e la musica di sottofondo lentamente digradano per lasciar spazio, alle 21 e 35 dell’8 gennaio alla seconda esibizione del supergruppo ‘Volcan’, il nuovo progetto del pianista e compositore cubano Gonzalo Rubalcaba, che si è spesso esibito al ‘Blue Note’, il cui pubblico dimostra di apprezzare con entusiasmo la musica latina.

Ma lo show si è aperto con un’interessante assolo ad un’arpa diatonica elettrificata di Edmar Castaneda, che ha rivoluzionato lo strumento nello stile, riuscendo a suonare contemporaneamente la melodia, la linea di basso e gli accordi. Colombiano, ha suonato in duo con Charlie Haden, con Chick Corea e, per l’appunto, con Rubalcaba, col quale si sarebbe esibito al Blue Note il 12, a conclusione di quattro doppi set di ‘Volcan’: due al Blue Note (l’8 e il 9) e due al Cotton Club (il 10 e l’11), un locale di Tokyo della stessa catena.

A stretto contatto coi musicisti, il set di Volcan è cresciuto brano dopo brano nell’arco di 70 minuti. Sette i pezzi ascoltati più un inevitabile bis. Rubalcaba alterna come sempre un pianismo delicato, fatto di poche note a creare stacchi e a marcare il tempo di composizioni apparentemente semplici, in realtà dalla complessa esecuzione, ad uno estremamente veloce che si sviluppa, intenso e percussivo, lungo l’intera tastiera, infiammando l’ascoltatore.

Oltre allo strumento acustico ha utilizzato un sintetizzatore Korg che ha riprodotto la sonorità “vintage” del piano elettrico Fender-Rhodes e quelle particolari del Moog. A sostenere e commentare le frasi appena accennate di Rubalcaba, attenta ai suoi rilanci che indicano una variazione ritmica spesso incline al raddoppio, una coppia affiatata: il batterista cubano Horacio ‘El Negro’ Hernandez e il percussionista puertoricano Giovanni Hidalgo.

Il primo, mescolando il Jazz col Rock, il Funk e la tradizione cubana, ha creato uno stile di drumming latino, personale, tecnicamente immerso nelle figurazioni basilari dell’isola tropicale. Massima attenzione alla clave, mantenuta con un pedale – generalmente un 2-3 spesso in levare – affidato al piede sinistro che lo alterna o lo asseconda allo Hi-Hat, il doppio piatto che si apre e si chiude. Molti Tom melodicamente intonati, un buon numero di piatti sospesi ed un gusto nello scomporre il ritmo iniziale, che prosegue anche nei solo, ovviamente più intensi e fantasiosi ma che sempre sviluppano una stringata base di partenza.

Definito da molti colleghi, "tocado da la mano de Dios", “toccato dalla mano di Dio”, Hidalgo si siede nel mezzo di un semicerchio di sei tumbadoras, dalle pelli assai tirate, che variano timbricamente dai suoni acuti a quelli bassi. Spostandosi lateralmente alla sua sinistra, percuote a volte una coppia di timbales, probabilmente per segnalare l’inizio di una particolare struttura figurativa. Per i temi lenti e sentimentali, utilizza invece una coppia di bongos.

Compagni da tempo – qualche anno fa avevano inciso per la ‘Incipit records’ un ottimo lavoro di sola percussione Traveling through time – i due musicisti hanno approfondito l’arte dell’improvvisazione, del dialogo tra pelli, che costituiva l’idea di partenza di quel CD. Nei brani eseguiti, ciò che sorprende è la bravura a mutare il tempo con facilità, passando da un medium a un veloce in estrema rilassatezza, a mantenere la coordinazione dopo numerosi spezzettamenti dovuti a stacchi di cui abbondano brani come quello d’esordio ‘Volcan’.

Tra i pezzi non originali è piaciuta una romantica versione di Corsario, forse un omaggio da parte di Rubalcaba a Joao Bosco, il cantautore e chitarrista brasiliano, col quale aveva partecipato ad un tour nella seconda metà degli anni ’90, passato anche per il teatro Goldoni di Venezia. E ancora ‘Salt peanuts’, il ritmico, scattante brano di Dizzy Gillespie, che nel 1988 volle con sé Hidalgo per un tour in Africa in sestetto e poi nella ‘Dizzy Gillespie United Nations Jazz Orchestra’.

La percussione di Hidalgo è particolare, oltre che per la precisione, per un approccio batteristico – è capace, ad esempio, di sviluppare con espressività la figura del paradiddle- sulle pelli colpite dalle mani nude. In mezzo, a tenere in piedi un discorso spesso sul filo del rasoio tra il piano e le percussioni, l’elegante, preciso bassista cubano Armando Gola. Ha usato un basso fretless a 6 corde, dal suono meno elettrico, più morbido e pastoso rispetto a quello dello strumento normale a 4 corde, ritagliandosi frequenti assolo melodici, che davano modo, soprattutto ai percussionisti, di rifiatare.

Un bel concerto, perfetto per un locale di medio-piccole dimensioni, che consente un contatto immediato, amichevole e stimolante anche per i musicisti. ‘Volcan’ è stato lo scorso inverno per una sola data a Torino, nella stessa formazione, eccetto un diverso batterista rispetto ad Hernandez. È auspicabile un ritorno, magari primaverile-estivo, per una serie di appuntamenti all’aperto, in contesti artistici ed acustici adatti a svelare tutto il bello che questo quartetto ancora nasconde dentro di sé.

                    

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