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Uzbekistan, Usa e Unione europea chiudono gli occhi sulla tortura

Un miliardo di dollari Usa: il valore dei progetti d’investimento realizzati da importanti imprese della Germania in Uzbekistan; 461 milioni di euro: il valore degli scambi commerciali tra Uzbekistan e Germania nel 2014, il 10 per cento in più rispetto al 2013; 348 milioni di dollari Usa: il valore dei veicoli militari forniti dagli Usa all’Uzbekistan nel gennaio 2015; 14: gli anni trascorsi da quando l’Uzbekistan ha concesso alla Germania la base militare di Termez, usata dalle truppe tedesche impegnate nell’ambito della Nato in Afghanistan.

Di fronte a questi numeri, è facile comprendere come il problema della tortura, endemica e impunita, sia assente nelle relazioni degli Usa e dell’Unione europea (di Berlino, in particolare) con l’Uzbekistan. Anni fa, ci ha persino rimesso la carriera l’ambasciatore di Londra.

Un rapporto diffuso ieri da Amnesty International descrive i metodi di tortura più in voga nelle carceri e nelle stazioni di polizia del paese centroasiatico, per estorcere confessioni, intimidire intere famiglie od ottenere tangenti: inserimento di aghi sotto le unghie delle mani e dei piedi; pestaggi con mani e pugni, bastoni, manganelli di gomma, sbarre d’acciaio e bottiglie di plastica riempite d’acqua; pestaggi mentre il detenuto è appeso con le mani a ganci pendenti dal soffitto, spesso con le braccia legate dietro la schiena, oppure ammanettato ai termosifoni o a sbarre d’acciaio fissate alle pareti; asfissia con buste di plastica o maschere antigas; umiliazioni sessuali e stupro; tormenti psicologici; privazione del cibo, dell’acqua e del sonno; esposizione a temperature estreme; scariche elettriche.

A Washington, a Berlino e nelle altre capitali europee tutto questo non interessa. Meglio mantenere buoni rapporti col presidente Islam Karimov, il prezioso partner commerciale e fedele alleato nella “guerra al terrore” che pochi giorni fa ha giurato per il quarto mandato consecutivo.

Questo cinico comportamento viene chiamato, eufemisticamente, “pazienza strategica”. L’espressione “complicità strategica” sarebbe sicuramente più sincera.

Le sanzioni imposte dall’Europa all’Uzbekistan dopo il massacro del 2005 di Andijan sono state annullate nel 2008 e nel 2009, con la revoca del divieto di viaggio e la ripresa della vendita di armi, nonostante nessuno sia stato punito per quelle uccisioni. L’ultima volta che i ministri degli Affari esteri dell’Ue si sono occupati della situazione dei diritti umani in Uzbekistan risale all’ottobre 2010.

Il governo degli Usa, a sua volta, ha annullato nel gennaio 2012 le limitazioni in tema di aiuti militari all’Uzbekistan originariamente imposte nel 2004 in parte a causa della situazione dei diritti umani nel paese. Quest’anno, le relazioni militari tra i due stati si sono rafforzate in modo significativo con la messa in atto di un nuovo programma quinquennale di cooperazione.

Il rapporto di Amnesty International, basato su più di 60 interviste condotte tra il 2013 e il 2015 e da prove raccolte in 23 anni, rivela l’esistenza di camere di tortura con pareti rivestite di gomma e isolate acusticamente a disposizione dal Servizio di sicurezza nazionale (Snb, la polizia segreta dell’Uzbekistan) e di celle di tortura sotterranee nelle stazioni di polizia.

Tra le vittime della tortura, figurano oppositori politici, membri di gruppi religiosi, lavoratori migranti e imprenditori. A volte le autorità prendono di mira anche le loro famiglie.

Esemplare è la storia dell’imprenditore turco Vahit Gunes, accusato di reati economici, tra cui evasione fiscale, e di essere in rapporti con un movimento islamico fuorilegge, accuse che egli ha respinto. È rimasto 10 mesi in un centro di detenzione dell’Snb, dove ha detto di essere stato torturato fino a firmare una confessione falsa. È stato di nuovo torturato quando la polizia segreta ha cercato di estorcere diversi milioni di dollari statunitensi alla sua famiglia in cambio del suo rilascio.

La risposta ricevuta dopo aver chiesto di avere un avvocato illustra l’ingiusta e arbitraria natura del sistema penale uzbeko:

“Uno dei procuratori mi ha detto: ‘Vahit Gunes, nell’intera storia dell’Snb nessuno è mai stato portato qui, dichiarato innocente e rilasciato. Tutti quelli che vengono portati qui sono colpevoli. Devono dichiararsi colpevoli’”.

Vahit Gunes ha descritto le condizioni inumane, le intimidazioni psicologiche, i pestaggi e l’umiliazione sessuale subiti durante il periodo di detenzione:

“Lì non sei più un essere umano. Ti danno un numero. Il tuo nome non è più valido. Ad esempio, il mio numero era 79. Non ero più Vahit Gunes, ero il 79. Non sei un essere umano. Sei diventato un numero”.

Ma questo numero, il numero 79, a differenza dei numeri che abbiamo elencato all’inizio di questo post, non ha alcuna rilevanza.

Se per voi fermare la tortura in Uzbekistan è rilevante, sul sito di Amnesty International c’è un appello da sottoscrivere.

 

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