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Una storia quasi dimenticata: i 44 eroi di Unterluss

Intervista con l’eroe Michele Mangano, uno degli Ufficiali sopravvissuti ai campi di concentramento nazisti. Testimonianze di chi è transitato dal lager di Bolzano.

 

Esiste una pagina di eroismo quasi sconosciuta che non è entrata nei libri di storia. Si tratta della vicenda dei 214 militari italiani che dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, catturati dai tedeschi, si rifiutarono di sottoscrivere la dichiarazione di adesione alla Repubblica Sociale Italiana (R.S.I.). Privati di qualsiasi diritto internazionale e costretti a lavorare nei campi di sterminio nazisti.

Pur stremati dalle immani condizioni di vita dell’Oflag 83 di Wietzendorf e consci delle conseguenze che il loro gesto avrebbe loro causato, il 16 febbraio 1945 si rifiutarono in blocco di lavorare per i nazisti. Nonostante il trasferimento nell’aeroporto di Dedelsdorf la “resistenza” continuò. Il 23 febbraio un ufficiale della Gestapo e un reparto di SS prelevarono 21 ribelli destinati a fucilazione certa. Fu in quel momento che 44 ufficiali, fino al sacrificio estremo, uscirono dal gruppo dei 214 e si offrirono volontariamente al posto dei decimati. Dopo molte ore di consiglio, il Comando della Gestapo condannò i 44 coraggiosi ufficiali alla “rieducazione al lavoro”. La mattina dopo, il 24 febbraio 1945, essi furono trasferiti nel campo di sterminio di Unterlüss in Germania. Alcuni transitarono anche per il lager di via Resia a Bolzano.

Decido, da buon cronista, di approfondire quei fatti e grazie all’aiuto della prof.ssa Casavola dell’ANEI (Associazione Nazionale Ex Internati) riesco a contattare uno di quegli eroi. Si tratta del Tenente Michele Mangano 92 anni di una vitalità e lucidità encomiabili. Cortesissimo, si rende subito disponibile a ripercorrere per il nostro giornale, via telefono, quei drammatici giorni. Il signor Montagano è nato il 27 ottobre 1921 a Casacalenda (CB) ove vive. È laureato in legge ed è un funzionario di banca in pensione. È Presidente Nazionale Vicario dell’A.N.R.P. (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia), ed è insignito dell’onorificenza di Grande Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

Sono molto emozionato di poter parlare con un eroe vero. Il signor Michele mi sorprende ancora una volta: “Diamoci del tu” mi chiede. La cosa mi lusinga ma rispettosamente per la sua età e la sua storia ossequiosamente preferisco il "lei".

Signor Michele, dove si trovava l’8 settembre del ’43?

L’8 settembre 1943 prestavo servizio militare nel XXII settore GAF di Idria. Sono stato catturato dai tedeschi il 10 settembre 1943 e internato per 17 mesi nei campi nazisti, in uno dei quali con mio padre, anche lui prigioniero che, per motivi di età, non se la sentì di seguire successivamente il mio esempio. Dal 24 febbraio al 9 aprile 1945 fui deportato nel campo di sterminio di Unterlüss in Germania.

Quali sono i suoi ricordi di quella mattina nella quale Lei ed altri suoi compagni decideste con grande spirito di altruismo di offrirvi al posto di altri?

Fummo separati dai compagni, mentre eravamo nell’attesa della nostra sorte le reazioni erano molto diverse; si pensava alla famiglia, si pensava al Paese. Solo sul fare della sera apprendemmo che la pena della fucilazione era stata commutata nel carcere a vita, da scontare nel campo di “rieducazione al lavoro” (come eufemisticamente veniva chiamato lo Straflager KZ di Unterlüss), dove il giorno dopo fummo trasferiti.

Quale fu il suo primo impatto nel campo di concentramento?

Davanti alla baracca ci attendeva il Lagerführer. Accanto a lui c’erano un maresciallo delle SS, armato di un grosso bastone, e due aguzzini con in mano tubi di gomma. A tutti furono strappati rabbiosamente gradi e stellette. Per più di tre ore li fecero correre in carosello, come i cavalli nei circhi, mentre bastone e tubi di gomma si abbattevano sulle nostre schiene e sulle nostre teste e il capo continuava, sghignazzando, a sparare colpi di pistola tra i piedi.

A mezzanotte, stremati e congelati, ci fecero entrare nella buia e lurida baracca, dove fu impossibile trovare un posto per sdraiarsi. Alla sveglia ci rendemmo conto in quale girone infernale eravamo capitati: centinai di persone sofferenti dalla fatica e dalla fame che si accapigliavano per il poco cibo che la Gestapo lanciava, grattandosi continuamente per le punture incessanti dei pidocchi che si trovavano ovunque, anche sul pane.

C’erano anche donne?

Sì, nell’altra parte della baracca, separate dal muro dell’unica latrina, erano rinchiuse centinaia di donne, in prevalenza ebree, ammalate e ferite. Spesso si sentivano urla, grida, imprecazioni: di notte cantavano a bassissima voce dolorose nenie, in una lingua sconosciuta. 

Com’era la vita giornaliera nel lager? Come venivate trattati?

Ricordo gli urli con i quali venivano impartiti gli ordini, urlati in un tedesco incomprensibile, talvolta addirittura in russo. L’indecisione nella esecuzione provocava una pioggia di frustate. Per qualsiasi mancanza la pena era sempre la stessa. Nei primi giorni fummo adibiti a lavori di sterro nel campo. Poi venimmo portati nello scalo ferroviario dove dai treni scaricavano carri e materiale bellico da mimetizzare e riparare. Per undici ore consecutive lavoravamo nel fango, sempre sorvegliati dalle SS armate di bastoni di cuoio che si abbattevano sulle nostre schiene incessantemente.

Durante il lavoro, mai un riposo, mai un tozzo di pane, solo qualche pugno di neve che dava la sensazione di masticare qualcosa. Quella volta che riuscivamo a trovare delle patate marce, che spesso mangiavamo con le bucce, dovevamo nasconderle nelle bustine e nelle camicie piene di pidocchi. Eravamo diventati degli accattoni o peggio, dei cani randagi. Le fatiche erano rese insopportabili dal freddo, le continue percosse e l’assoluta mancanza di cibo. Qualsiasi tentativo di reazione significava applicazioni di misure più severe, spesso mortali. I più deboli e i malati erano presi di mira. Vidi uno dopo l’altro i miei amici morire.

Ricorda un episodio particolare?

Ricordo in particolare una notte al buio, nella corsa verso la lurida latrina, un giovanissimo soldato olandese cadde a terra. Inconsapevolmente tutti passarono e ripassarono sul suo povero corpo. La mattina lo trovarono agonizzante, sfigurato dagli zoccoli. Quel biondino, che i superstiti ricordano ancora con pena e tanto senso di colpa, fu buttato, ancora in vita, nella fossa comune.

Che cosa successe negli attimi prima della liberazione?

Lo scontro finale si avvicinava e si sentivano le cannonate. Nella seconda settimana di aprile del 1945 il comando tedesco ordinò di eliminare ogni traccia dello Straflager, e il Lagerfürher decise di smembrare il campo e lasciar andare gli ufficiali con un lasciapassare come lavoratori liberi. Con la precisione burocratica, tutta tedesca, restituì anche le cose a noi sequestrate il giorno dell’ingresso nel campo, ma man mano che si passava davanti a lui, pretendeva che si gridasse "Heil Hitler". Per l’ultima volta, con quel poco di voce che mi era rimasta, sprezzantemente risposi “nein”. Caddi svenuto a terra per le tantissime bastonate.

Per punizione, quando mi ripresi, fui costretto insieme con altri a svuotare il pozzo nero delle latrine delle ragazze ebree e trasportare il carico, con una carriola, fino al fiume. Al momento della partenza, alla richiesta di un tozzo di pane, gli ex carcerieri, come ultimo atto di disprezzo, pretesero che si cantasse una canzone di commiato. Dopo un attimo di raccoglimento, tutti insieme, come per incanto, gli ex prigionieri intonarono il Nabucco di Verdi, segno di gioia e speranza per il futuro.

Dopo aver vagato alcuni giorni, incontrammo gli alleati che ci salvarono e ci portarono negli ospedali, perché affetti da tifo petecchiale, da tubercolosi, da ferite infette e purulenti. Tornammo nel campo di Wietzendorf dove attendemmo il turno del rimpatrio. Io rientrai in Italia alla fine di agosto del 1945.

 

Il signor Michele avrebbe ancora tanto da raccontare. Mi onora poi di un regalo. Si tratta della copia della lettera che inviò a sua madre subito dopo la Liberazione, il 16.5.1945. Queste le sue parole:

"Mamma carissima, sono finalmente libero e ringrazio Iddio per la forza concessami per durare e resistere sino in fondo. Ho fatto quanto era mio dovere di soldato e di italiano. Sono fiero della prova che ho sostenuto e dell’esempio che ho dato! Un solo pensiero ha dominato le mie azioni, il tuo bene e quello di tutta la famiglia. Da un anno sono senza vostre notizie! Ma pure attendo con calma e fiducia il giorno del nostro incontro. La stessa calma e fiducia raccomando a voi tutti.

Prego il Signore perché anche papà rientri presto a casa. Vi stringo tutti al cuore e vi bacio caramente. Tuo Michelino

Avvisa la famiglia di Domenica (Gambatesa) che Gino è con me e sta bene.

Rispondetemi:

Montagano Michelino

Italian P.W.X. Offlager 83

Wietzendorf (Hannover)"

 

Signor Michele, anzi eroe Michele, cosa prova oggi nei confronti di quegli aguzzini?

I tedeschi che conoscemmo nei campi erano soltanto strumenti spietati di una fede fanatica e di una disciplina rigorosa e spesso disumana, ma abbiamo avuto anche la ventura di conoscere una donna tedesca dispensatrice di umana pietà. Sola a riscattare il peccato e la malvagità di tanti criminali fra i nostri carcerieri. A Unterlüss, quando passavamo davanti al suo casolare, lei si commuoveva allo spettacolo del nostro calvario e, sfidando le SS e la fucilazione, metteva vicino al truogolo del suo maiale una scodella con la minestra d’orzo per quelli di noi che già soffrivano di continue emottisi.

Io ringrazio Iddio che mi ha dato la possibilità di condividere con le giovani ragazze ebree un po’ del loro olocausto. Lo ringrazio anche per avermi dato la gioia di riabbracciare mio padre sano e salvo. Ancora oggi, quando durante la S. Messa, il sacerdote rievoca il sacrificio di Cristo, offrendosi liberamente alla sua passione, il mio pensiero vola a Unterluss, ai 44 pronti all’estremo sacrificio e non sempre riesco a trattenere un moto di intensa commozione.

Per quanto mi riguarda, io sento di poter affermare che sono riuscito a passare attraverso il tragico mondo dei campi di sterminio senza odiare nessuno, neppure i nazisti, anche se loro, per diciannove lunghi mesi, hanno cancellato dal consorzio umano il nome del tenente Michele Montagano da Casacalenda e mi hanno marcato col numero 27539 come I.M.I. e col numero 370 come politico KZ.

Al termine di questa intervista, cosa si sente di dire alle nuove generazioni dopo tutto quello che ha passato?

Come superstite dei campi di prigionia e di sterminio mi auguro che in un domani le nuove generazioni si ricordino di noi, non per le dure condizioni sopportate nei lager – del resto simili per tutti i deportati e prigionieri di guerra – ma per la scelta volontaria e traumatica che solamente gli I.M.I. hanno eroicamente operata contro il nazifascismo, nella stessa terra di Germania.

 

Prima di lasciarci il signor Michele mi fa pervenire il ricordo di un altro eroe di Unterluss. Si tratta del Carabiniere Nicolangelo Ciamarra (deceduto il 5 dicembre del 2011) che fu deportato nel campo di sterminio di Mauthausen. Trascorse un breve periodo di detenzione nel lager di via Resia a Bolzano. Questa la sua toccante testimonianza:

Appena arrivati, si presentò ai nostri occhi, come avvertimento, uno spettacolo orrendo: un detenuto legato ad un palo, con le mani in alto e con le punte dei piedi poggiate a terra, bagnato dei suoi stessi escrementi, chiedeva da mangiare. L’impressione fu indescrivibile. Ciascuno di noi tentò di lanciare in quella bocca aperta pezzetti di pane che raramente giungevano a destinazione. L’uomo doveva essere lì da più giorni a giudicare dalla quantità di pane che era intorno a lui. I tedeschi fingevano di non vedere. Ci lasciavano fare per godere quel supplizio di Tantalo! Il campo di concentramento era diviso in blocchi, contrassegnati da una lettera dell’alfabeto. Io fui assegnato al blocco “E”, quello dei “pericolosi”. Dirigeva il blocco un capitano dell’esercito. Un colonnello, pure italiano, era capo campo. Entrambi erano alle dipendenze di Misha Scifert,un giovanissimo ufficiale delle SS che sottoponeva i prigionieri ad inaudite torture per il gusto sadico di vederli soffrire. Contrariamente a quelli che andavano a lavorare, noi “pericolosi” eravamo assoggettati al massimo rigore. Uscivamo solo la mattina e la sera per l’interminabile appello ed eravamo condannati a sopportare, immobili e in silenzio, il pungente freddo di Bolzano. Dormivamo ammassati nei castelletti (quattro su ogni pagliericcio largo meno di un metro), l’uno con la faccia accanto ai piedi dell'altro. Il nostro blocco era separato da quello “F” delle donne da un tramezzo di mattoni, che noi avevamo forato in più parti per comunicare con loro e ricevere qualche pezzo di castagnaccio di cui esse stesse si privavano. Da qualche tempo attirava la nostra attenzione un castelletto in fondo alla baracca, coperto da un telone, dove si allestiva il presepe da scoprire la notte di Natale. La mattina della vigilia, dopo l’appello, noi prigionieri del blocco “E” fummo circondati dalle SS con i cani al guinzaglio, i mitra spianati, e costretti nel recinto a restare in piedi, immobili, per tutto il giorno, dalle sei alle diciannove. Al rientro nella baracca non ci fu somministrata neppure la consueta brodaglia di barbabietola da foraggio. Venimmo poi a conoscenza che una spiata aveva fatto fallire, con conseguenze atroci per i responsabili, il piano d’evasione architettato da un gruppo di ardimentosi per la notte di Natale attraverso il tunnel scavato sotto il castelletto! Il 9 gennaio 1945 i prigionieri partirono dalla stazione di Bolzano, destinati a Mauthausen. Uomini e donne vennero stipati nei vagoni di un lungo treno merci, ammorbati dal fetore dei loro rifiuti organici sparsi per terra, senza acqua e con una razione di pane di segale e paté di pesce che accresceva la sete. Nella mente di tutti c’era l’ansia di fuggire, ma la neve e i frequenti controlli li fecero desistere da ogni tentativo.“Lungo il Brennero”, le montagne innevate mi richiamarono alla mente i miei monti, quelli dell’Appennino molisano. Li rivedevo nel loro immacolato candore rifulgere al bacio del sole. Poi, il mio pensiero andò alla famiglia. Vedevo mia madre, con gli occhi arrossati di pianto, lasciare il telaio per andare a ravvivare il fuoco nel camino; mio padre, stanco e avvilito, affondare nella neve nell’atto di consegnare la posta ai compaesani; la mia ragazza in trepida attesa di notizie. Il passato, le tante vicende di gioventù mi passavano davanti agli occhi come la pellicola di un film. Il futuro non mi apparteneva perché era ora delegato agli aguzzini tedeschi. Uno stridore di freni, voci gutturali e incomprensibili, raffiche di mitra e, poi, urla di dolore e lamentimi riportarono alla realtà. Qualcuno nell’altro vagone aveva osato fuggire! Tornò il silenzio, un silenzio di tomba, carico di tristi presagi.

Saluto commosso l’eroe Michele Montagano. Lo ringrazio per il tempo che ha voluto dedicarmi e per la grande lezione di umiltà e saggezza che ha voluto regalarmi. Da oggi ogni qualvolta vedrò sventolare la nostra bandiera e udirò l’inno di Mameli ripenserò anche a quegli uomini e al loro sacrificio, perché grazie a eroi come loro oggi possiamo vivere in un paese democratico e libero.

Altri approfondimenti e testimonianze sono riportate nel libro Testimonianze di tre deportati molisani nei campi di sterminio nazisti", di Nicolino De Rubertis

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