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Una società in preda al panico. Le nuove paure di Marc Augé

L’incertezza, l’instabilità, il futuro in generale: tutte cose che fanno paura, certo. Ma non basta. Abbiamo paura della mancanza, tanto che a coloro che teniamo ai margini della società diamo nomi che li caratterizzano appunto in quanto “mancanti di qualcosa”: senza fissa dimora, sans-papier, dis-occupati.

Ma nemmeno così riusciamo a rendere l’idea della sensazione di angoscia diffusa tipica di questo terzo millennio, frastornato da allarmi di ogni tipo - dalla notizia dell’omicidio brutale a quella delle nazioni in bancarotta, dal cataclisma allo spionaggio internazionale, dal disastro ambientale all’ultima strage in una scuola statunitense -, tutti compressi in un unico notiziario, giornale, aggregatore web.

Tutto ciò costituisce, secondo l’antropologo Marc Augé (Le nuove paure. Che cosa temiamo oggi?, ed. Bollati Boringhieri), lo sfondo collettivo di quello che sul piano del singolo si concretizza in una vita stressante fino all’insopportabile. La novità, secondo l’autore francese, è che saremmo passati da una generica e tradizionale “paura della morte” a una nuova e peggiore “paura della vita”, nella quale le prospettive personali, familiari, sociali sono spesso così fosche da far sembrare la morte l’unica scappatoia possibile (ne sono testimoni gli ormai innumerevoli casi di suicidio a causa del lavoro).

Colpa di un sistema economico che ha preferito le esigenze del profitto a quelle dell’uomo (ad esempio: oggi il capitale mi dice che una certa risorsa umana renderebbe di più se lavorasse a 500 km di distanza da qui; e adesso, chi lo va a dire a quella “risorsa”, che magari ha appena concluso il mutuo per la casa?), ciò per cui Augé può scrivere che «la lotta di classe c’è stata ma la classe operaia l’ha persa. L’internazionale trionfa, ma è capitalistica».

Sistema che prevede la produzione di un numero crescente di esclusi come condizione necessaria a che altri possano invece godere del cosiddetto benessere del consumismo. Una soluzione ci sarebbe, scrive l’autore citando il latino Terenzio: ricordandoci che siamo uomini, e che nulla di ciò che è umano ci è estraneo. Una globalizzazione economica (ma anche politica, tecnologica ecc.) che pretenda di fondarsi sull’esclusione programmatica e sistematica di alcuni (e sullo sfruttamento di altri) è per ciò stesso inaccettabile.

La posta in gioco è chiara: se non riusciamo a vivere insieme la storia, se ne escludiamo una parte dell’umanità, non la domineremo e sprofonderemo nella violenza assieme a coloro che avremo escluso. C’è dunque un solo imperativo: opporci.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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