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Un invito a Poletti: venga a Prato passando da Barbiana

di Luca Soldi

L’uscita del Ministro Giuliano Poletti sulla necessità di rivedere il modo di corrispondere un salario, lo stipendio la dice lunga su quello che può essere l’obbiettivo. Quello che però propone il Ministro, nonostante alcune precisazione, è il rischio di un ritorno al passato che in pratica, senza una profonda attenzione, può ridurre ogni possibilità di tutela. E’ l’individualizzazione del rapporto. E’ il cottimo istituzionalizzato al tempo del mondo 2.0.

E il cottimo costituisce già una delle possibile forme di retribuzione previste dall’art. 2099 cod. civ. e, dopo la retribuzione a tempo (che è la forma più diffusa), rappresenta il sistema retributivo più utilizzato dalla prassi aziendale.

In sostanza, il lavoratore è retribuito a cottimo quando il compenso che percepisce è commisurato alla quantità di lavoro prodotto e non invece – come normalmente avviene – sulla base della durata della prestazione lavorativa.

Il sistema in esame era nato come forma di corrispettivo tipicamente destinata al lavoro autonomo ma in realtà trovava e trova ancora forme di applicazione anche nei confronti del lavoro straordinario. A Prato è stato spesso applicato purtroppo anche abbinato ad una sorta di compenso in “nero”.

Utilizzare il cottimo nelle rifinizioni, nelle filature, nelle tessiture era l’abc per sfruttare al massimo la produttività agli albori dell’età dell’oro. Era il modo di gonfiare le buste quando l’economia tirava, quando il dipendente poteva lasciare un’azienda per entrare il giorno dopo in un’altra, senza alcuna soluzione di continuità. Ma mentre nel lavoro autonomo il cottimo è caratterizzato dall’assoluta considerazione del risultato finale del lavoro compiuto, nell’ambito del lavoro subordinato la determinazione della retribuzione mediante questo sistema non può che utilizzare il parametro relativo al rendimento del singolo lavoratore.

La valutazione di un rendimento che diventa fatto soggettivo di valutazione è il rischio ( la tragedia) in cui si può incorrere quando il parametro non è ben definito.

Rischi ed effetti concreti che erano stati oggetto della contrattazione collettiva, che in un primo momento (e in particolar modo fra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70) aveva tentato di ridurne l’applicazione al fine di limitare al minimo le possibilità di deterioramento delle condizioni lavorative e l’insorgenza di disuguaglianze fra i trattamenti ricevuti dai lavoratori.

Certamente siamo abbastanza “attrezzati” per poter affrontare il tema. Le stesse parti sociali hanno, tutte, l’interesse a fare in modo che certi pericoli e degenerazioni vengano evitate. Il rischio rimane e siccome la memoria e’ importante mi permetto di riportare di seguito una lettera di un prete che da uno sperduto paesino del Mugello ebbe l’ardire, fra le altre cose, di esprimersi anche su questo tema.

Temi e contesti diversi che però impongono una profondissima riflessione e per questo propongo la lettura di una accorata ed autorevole testimonianza che viene da lontano ma non per questo è meno reale da certe situazioni che esistono ancora:

“Una qualsiasi storia nuda e cruda fra le tante che ti potrei raccontare. La storia del mio Mauro. Mauro entrò a lavorare a 12 anni . Veramente il suo babbo voleva mandarlo all’ Avviamento. Ma non potè perchè a quei giorni lavorava in integrazione e la famiglia l’ha pesante. Così Mauro andò subito a fare cannelli e da quelli passò al telaio. L’anno dopo il babbo restò disoccupato e il peso della famiglia passò sopra le spalle del ragazzo .

Ma Mauro non fece smorfie: chiese due turni di 12 ore e li ottenne. A 13 anni, 12 ore. Una settimana di notte e una di giorno. E a cottimo. Il cottimo è un lento, diabolico suicidio. Specialmente per un ragazzo. Con la smania di riportare alla mamma una busta sempre migliore,ci si consuma e non si pensa alla salute. Senza contare la tentazione di cambiare la spola senza fermare.

A rischio di lasciarci un dito. Le cose che ti ho detto sono già grosse, ma non so se sei capace di valutarne il peso.

Te ne spiegherò dunque meglio tre o quattro delle più grosse. Lavorare a 12 anni vuol dire rovinarsi la salute. Non andare a scuola, non leggere. Sentirne d’ ogni colore , lontano dalla mamma, prima del tempo. Lavorare 12 ore a turni vuol dire sottoporsi il doppio degli altri agli infortuni. Tornare solo per buttarsi sul letto e levarsi solo per ripartire . Perdere anche la scuola popolare, la Messa una domenica si’ e una no . Perdere gli amici. Dormire quando vegliano gli altri, vegliare quando dormono. Insomma essere tagliati fuori dal vivere civile”.

Questo brano, è bene spiegarlo, arriva da una lettera del 1953, scritta da don Milani ad un altro sacerdote che aveva criticato il suo impegno sociale.

E per spiegare le ragioni delle sue tante scelte a fianco degli ultimi, dei più deboli, don Milani racconta la storia di Mauro, un ragazzo, che a 12 anni fa il tessitore a cottimo, per aiutare la famiglia in difficoltà economiche.

Mauro ogni giorno si reca a Prato in bicicletta, dal suo paese e lavora per dodici ore a settimane alterne. Il cottimo gli impone di “scegliere” il turno di notte, naturalmente , è ” senza contratto, senza assicurazione, senza difesa “.

Non è solo in quegli anni: almeno in diecimila vengono in città dai monti e dalle borgate della piana. Non ci sono molte possibilità di discussione la concorrenza è molta e poi stanno arrivando anche i meridionali che hanno pure ancora meno pretese. Sono tutti operai presso “terzi” cioè presso quegli artigiani che in stanze di fortuna hanno istallato i telai e lavorano per conto delle grandi fabbriche tessili.

Al ministro Giuliano Poletti, ecco dunque un invito, prima di proseguire per la sua strada. Ad incontrare Prato, passando prima da Barbiana. Non troverà di sicuro né Don Milani e neppure Mauro ma di sicuro troverà molte altre storie che lo faranno riflettere.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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