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Un antiglobalismo che non è anticapitalismo

Si conclude oggi la nostra ripresa dell’articolo di Matteo Luca Andriola sull’antiglobalismo della “Nuova Destra” comparso sull’ultimo numero di “Paginauno”. In fin dei conti, spiega Andriola l’antiglobalismo della nuova destra non è un vero e radicale anticapitalismo. Ma lancia un messaggio alla sinistra contemporanea.

 

1 – Anticapitalismo e nuova destra

2 – Il ruolo di Orion

 

3 – Nuova destra e anticapitalismo: oltre il complottismo

L’analisi antimondialista, nonostante tocchi punti interessanti, è più debole rispetto a quella anticapitalista marxiana: non mette infatti in discussione il capitalismo e contesta le dinamiche globali e transnazionali solo nella sfera culturale, ergo sovrastrutturale. Insomma, tolta la retorica antiebraica, rimane, aggiornata, la critica dei vecchi fascismi al capitalismo apolide – e in tal caso improduttivo perché nato dalla speculazione, dall’usura – da contrapporre al capitalismo ‘sano’, quello locale e produttivo, dove il motore è il ‘produttore’, termine che sottintende sia il lavoratore che l’imprenditore in nome di una ricetta corporativa, la socializzazione fascista della Rsi, che Orion, archiviato il nazionalcomunismo, riscopre negli anni Duemila quando diventa un faro per l’area ‘non conforme’ (cioè CasaPound). Non casualmente Gabriele Adinolfi, nel marzo 2005 scrive che “la Socializzazione rappresenta indiscutibilmente il compimento estremo della rivoluzione sociale mussoliniana. Economicamente essa rappresenta il punto di rottura con il capitalismo. Non è assolutamente vero che durante il Ventennio l’economia fascista sia stata capitalista: tutt’altro. Ogni intervento legislativo attesta la continua aggressione, da parte dello Stato nazionale e proletario, allo strapotere privato. Il Corporativismo, all’inverso di quanto ha voluto sostenere la propaganda marxista, ha rappresentato un’esperienza controcorrente rispetto al capitalismo, incentrata sull’organicità sociale. Il capitalismo, ovviamente, esercitò da sempre un’azione di contenimento rispetto alla rivoluzione autoritaria del Duce; sicché, inchiodato in una logica di azione/reazione, il Regime aveva finito col riuscire a imporre agli industriali un rapporto di armonia tra lavoro e capitale, tra società e individualità. In questa logica di armonia (contrassegnata dal procedere inesorabile dell’azione sociale del Capo) si mantiene il rapporto capitale-lavoro durante il Ventennio” (24).

Una lettura revisionista ed edulcorata del regime mussoliniano quella di Adinolfi, che ‘dimentica’ le origini antioperaie dello squadrismo mussoliniano e la prima fase deflazionista e neoliberista del regime, opportunisticamente archiviata dopo la crisi borsistica del 1929, che colpì il capitalismo mondiale (a esclusione dell’Unione Sovietica) e obbligò il capitalismo, per resistere all’urto, a ricorrere al sostegno dello Stato, imponendo al fascismo l’attuazione di riforme corporativiste. Riforme che, con la Repubblica Sociale, spinsero l’ala populista del fascismo repubblicano a radicalizzarsi, ma solo alla fine (verso il dicembre del 1944) col boicottaggio degli occupanti/alleati tedeschi (il che dovrebbe far riflettere quando oggi l’estrema destra si erge ad alfiera del ‘sovranismo’). Insomma, il corporativismo solidarista auspicato in risposta al mondialismo, è solo una governance del capitalismo.

C’è però da chiedersi perché tali riflessioni, come notava Fraquelli, paiono più innovative, più ‘rivoluzionarie’. Va detto che esse vengono elaborate in una fase cruciale di cambi paradigmatici in seno al capitalismo globale, ovvero a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, quando avvengono dei profondi mutamenti di natura strutturale, dato che, conclusi i famosi Trenta gloriosi (1945-1975), si ha l’avvio “della società post industriale, caratterizzata dalla fine del modello fordista e della centralità operaia, dallo sviluppo del terziario avanzato e dalla prima globalizzazione finanziaria, con la deindustrializzazione, le delocalizzazioni, i primi flussi migratori. Prende il via la rivoluzione conservatrice neoliberista degli anni Ottanta, che non coinvolgerà solo Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher in Gran Bretagna, ma muterà anche la genetica della sinistra. È il caso del francese François Mitterand e, in Italia, del Psi di Bettino Craxi” (25), una rivoluzione neoliberista che spingerà i settori più dinamici della destra culturale a dare una lettura più profonda rispetto a quelle date precedentemente.

La fase corrisponde non solo all’abbandono del pensiero marxiano da parte della socialdemocrazia, ma pure alla sua debolezza in seno ai partiti comunisti. Se negli anni Settanta era ancora egemone, è negli anni Ottanta “che si registra l’avvio della fase discendente della cultura marxista in Italia. Questa viene attaccata ‘dall’esterno’ (gli apparati ideologici dello Stato borghese), ‘dall’interno’ (vengono a galla le tendenze interne al Pci che puntano a una sua trasformazione socialdemocratica o si rafforzano le tendenze che prendono le distanze da Lenin o dal marxismo orientale) e ‘di lato’ (sorgono riviste e centri studio per influire sul dibattito interno del Partito)” (26), con l’epilogo odierno di una sinistra radicale comunista (o postcomunista?) che attua nei primi anni Novanta la sua rifondazione su basi ideologiche fragili ed eclettiche, che pescano più dalla nuova sinistra anni Sessanta.

Una delle motivazioni di tale crisi, rileva il filosofo marxista Domenco Losurdo, è da ricercare dal fatto che la sinistra italiana e occidentale risulta assente, incapace di rendersi realmente indipendente dal sistema imperialistico, quando non colpevole di aver spianato la strada a un neoimperialismo di ritorno sotto forma di guerre di esportazione della democrazia occidentale, veicolando un pregiudizio eurocentrico e inconsciamente razzista. Secondo Losurdo questo avviene perché s’è creata una dicotomia fra marxismo occidentale, “che ha sviluppato una sua personale riflessione separandosi dallo sviluppo del pensiero marxista nel resto del mondo, un marxismo occidentale che ha influenzato i movimenti della cosiddetta ‘nuova sinistra’ e il filone sviluppatosi dal ‘68 in poi, divenendo egemone dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Un pensiero, i cui cantori odierni sarebbero Negri, Hardt, Zizec e prima ancora Foucault e Arent, che ha rimosso dalle sue riflessioni il nodo della lotta antimperialista di matrice leninista e quello sullo sviluppo delle forze produttive, come invece hanno continuato a fare quei movimenti affermatisi fuori dall’Occidente, che si sono posti l’obiettivo di fare uscire dalla miseria e dalla fame centinaia di milioni di essere umani” (27). Tutti intellettuali – pensiamo alla fortuna entro Rifondazione comunista o nell’area noglobal del libro di Toni Negri e Michael Hardt Impero Moltitudini – che non contestavano la globalizzazione in quanto tale, ma solo la sua governance èlitaria, auspicandone, come notava Fraquelli all’inizio, una dal “volto umano”, cioè gestita dal basso.

Sta di fatto che la Kulturkritik delle nuove destre metapolitiche – una versione aggiornata della Konservative Revolution sviluppatasi a Weimar fra le due guerre e del filone antimoderno e aristocratico nietzscheano – cerca di rielaborare se stessa in risposta e reazione alla post modernità. Se la destra, con un intellettuale atipico come Alain de Benoist, ha cercato di uscire dal gorgo rielaborando la propria cultura, così non ha fatto la sinistra, che la propria cultura l’ha rinnegata. È in questo spazio che la nouvelle droite ha avuto gioco facile a sviluppare la sua strategia culturale. Ed è su questo terreno che la sinistra deve riflettere, per non perdere la battaglia sociale che caratterizzerà il futuro scontro politico.

24 G. Adinolfi, Le mine dimenticate, in Orion, nuova serie, n. 246, marzo 2005, pp. 15, 16

25 M. L. Andriola, Fra postmodernità, crisi del marxismo e affermazione delle nuo- ve destre metapolitiche: il caso italiano, in Paginauno, n. 62, aprile-maggio 2019, p. 48. Rimando a S.G. Azzarà, Crisi della cultura di massa, postmodernismo e necessità della menzogna, in Marxismo Oggi, n. 1-2, 2011, pp. 71-144

26 F. Maringiò, Marxismo oggi in Occidente: le ragioni di una crisi e la necessità di una rinascita, in Marx21.it, 5 maggio 2018, ora al link http://www.marx21.it/index.- php/storia-teoria-e-scienza/marxismo/28984-marxismo-oggi-in-occidente-le-ragioni- di-una-crisi-e-la-necessita-di-una-rinascita

27 Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Roma-Bari, Laterza, 2017 f1767cb37b

Foto: Pixabay

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