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Un anno di ordinaria emergenza

La proroga dello stato di emergenza prelude a un nuovo periodo di compressione dei diritti mediante Dpcm, come nei mesi scorsi?

di Vitalba Azzollini

 Dipenderà da Governo e Parlamento. Infatti, il potere del Presidente del Consiglio di incidere su diritti e libertà delle persone non deriva dalla dichiarazione formale dello stato di emergenza del 31 gennaio scorso, ma gli è stato attribuito dal Governo con la “complicità” del Parlamento. E potrebbe accadere ancora. Dunque, al di là dell’eventuale proroga, il rischio è questo.

È ormai luglio inoltrato, e si avvicina una scadenza che preoccupa molti: il 31 luglio, fine dello stato di emergenza. Il timore è che la proroga di tale stato – accennata dal Presidente del Consiglio, forse in considerazione dei contagi a livello globale, dei focolai nel Paese, dei dubbi sull’evoluzione autunnale – dia ancora luogo a provvedimenti limitativi di diritti garantiti costituzionalmente, come accaduto nei mesi passati.

Purtroppo, chi nutre tale comprensibile timore guarda al dito, non alla luna: e, guardando al dito, non si rende conto che la situazione è forse addirittura peggiore di quella che si può immaginare. Perché se è vero che la dichiarazione dello stato di emergenza sanitaria del 31 gennaio ha spianato la strada a quella che è stata definita come emergenza del diritto – con compressione, mediante strumenti giuridici non idonei, di libertà tutelate costituzionalmente – quanto accaduto nei mesi scorsi ha dimostrato che basta un decreto-legge, fondato sugli ordinari presupposti di “necessità e urgenza” (art. 77 Cost.), per conferire ampi poteri al Presidente del Consiglio di turno. Per spiegarlo, serve innanzitutto ripercorrere i provvedimenti che si sono succeduti.

 

Lo “stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili” – a seguito della dichiarazione di emergenza internazionale di salute pubblica per il coronavirus dell’Organizzazione mondiale della sanità (30 gennaio 2020) – fu previsto per una durata di sei mesi con delibera del Consiglio dei Ministri del 31 gennaio 2020, in base al Codice della Protezione Civile (d.lgs n.1/2018, prorogabile per ulteriori 12 mesi).

Con tale delibera è stato attribuito al capo del Dipartimento della Protezione Civile il potere di ordinanza «in deroga a ogni disposizione vigente», in conformità a quanto sancito dal Codice suddetto. A partire dal 3 febbraio, sono state emesse molte ordinanze per far fronte operativamente alla gestione dei contagi da Covid-19: per esse, la dichiarazione dello stato di emergenza è un presupposto essenziale.

Successivamente, a fronte dell’avanzata dell’epidemia, è intervenuto il decreto-legge n. 6/2020, che ha conferito al Presidente del Consiglio il potere di adottare le misure necessarie «allo scopo di evitare il diffondersi del COVID-19»: potere largamente esercitato dal vertice dell’Esecutivo mediante Dpcm, anche restringendo libertà e diritti comprimibili solo con legge o provvedimenti dell’autorità giudiziaria, con relativi dubbi di legittimità.

È seguito il decreto-legge n. 19/2020, che ha “sanato” una grave pecca di quello precedente (l’assenza di limiti all’esercizio del suddetto potere), e poi ancora un altro decreto-legge (n. 33/2020), che ha disciplinato il passaggio alla fase delle “riaperture”. Tali decreti-legge hanno costituito la base dei Dpcm di Conte. Peraltro, ci si sarebbe aspettati che «una volta imboccata la strada del progressivo e graduale ritorno alla normalità, il Governo avrebbe abbandonato la pratica dei Dpcm»: così non è stato. 

Quindi, riassumendo: la dichiarazione dell’emergenza del 31 gennaio ha rappresentato il fondamento per l’emanazione di ordinanze della Protezione Civile, non dei Dpcm di Conte (come pure autorevolmente sostenuto), che invece sono stati consentiti dai decreti-legge del Governo.

E la deliberazione dell’emergenza non è stata nemmeno il presupposto di questi ultimi: l’emergenza sanitaria – causa di “necessità e urgenza” – era nei fatti, al di là di qualunque dichiarazione formale. A comprova, basti pensare che i decreti-legge attributivi di poteri a Conte non contengono alcun riferimento alla delibera dello stato di emergenza, ma citano – evidentemente come motivo di “necessità e urgenza” – solo la dichiarazione dell’Organizzazione mondiale della sanità circa l’epidemia, poi pandemia.

E i Dpcm di Conte, a loro volta, «fanno richiamo alla dichiarazione dello stato di emergenza sanitaria nazionale», ma solo come «circostanza fattuale», alla quale ancorare alcune scadenze, e non come «presupposto normativo abilitante» i poteri del Presidente del Consiglio. Quindi, in buona sostanza, se quest’ultimo nei mesi scorsi ha potuto disporre di ampi (e talora pieni) poteri, non serve tirare in ballo la delibera formale stato di emergenza: basta “citofonare” al Governo (e pure al Parlamento, come si vedrà a breve).

Forse ora è più chiaro quanto si è detto all’inizio circa il dito, la luna e una situazione ancora più grave di ciò che sembra. Infatti, a prescindere dalla dichiarazione di uno stato di emergenza, con decreti-legge emanati per la “necessità e urgenza” sanitaria da Covid-19 l’Esecutivo potrebbe continuare ad attribuire enormi poteri al Presidente del Consiglio.

E la strada ormai spianata, con i poteri decisionali dati al premier per “fare presto”, porta a non escludere che, in futuro, essa possa essere percorsa nuovamente, per qualsiasi altra situazione reputata di grave allarme, di tipo sociale, economico o altro, con discrezionalità e senza trasparenza, come nei mesi scorsi. Il problema, allora, non è solo e tanto la proroga dello stato di emergenza, quanto il fatto che i meccanismi istituzionali di pesi e contrappesi – previsti dall’ordinamento affinché i poteri dello Stato non debordino dai rispettivi limiti – hanno dimostrato di non essere sufficientemente resistenti alle tensioni, come quella in cui l’Italia si è da ultimo trovata. 

In questa prospettiva, può dirsi che lo stato di emergenza ha rappresentato un alibi per travolgere alcuni paletti a garanzia dello stato di diritto. Si pensi al paradosso giuridico concretizzatosi in piena epidemia: con il primo decreto-legge il Governo ha attribuito poteri di incidere sulla vita delle persone a colui il quale è a capo del Governo stesso, senza limite alcuno. E il Parlamento, in sede di conversione, non ha ritenuto di intervenire sull’ampiezza di quei poteri, ma li ha lasciati intatti.

Il secondo decreto-legge, come detto, li ha contenuti nell’oggetto e nel tempo, ma è rimasto il fatto che, con atti amministrativi, il vertice dell’Esecutivo potesse comunque comprimere diritti tutelati costituzionalmente. Nel mese di maggio, il Parlamento ha reputato di mettere una toppa e, con un emendamento alla legge di conversione del secondo decreto-legge, ha previsto che il presidente del Consiglio, se le condizioni lo consentono, chieda un parere al Parlamento sul Dpcm che intende adottare.

Ma è una toppa pressoché inutile: perché «se ci sono ragioni di urgenza (…) il presidente potrà evitare di chiedere il parere; se ci sono orientamenti parlamentari diversi (…) potrà fare come ritiene più opportuno. Il Parlamento insomma non deciderà nulla». Dunque, in una fase critica per i cittadini, il Parlamento – che dovrebbe rappresentarli – è stato latitante (e intanto enti locali e Regioni, «nelle more» dell’emanazione di Dpcm, contribuivano alla generale confusione regolatoria).

Così, mentre il Governo decretava d’urgenza con disinvoltura e il Presidente del Consiglio disponeva dei diritti delle persone con propri atti, si è concretizzata l’idea avanzata un paio di anni fa da Davide Casaleggio: l’inutilità del Parlamento. In un momento cruciale, nel quale esso avrebbe dovuto far valere la propria rilevanza, si è tirato indietro: se si considera che ciò è avvenuto alla vigilia del referendum per votare il taglio dei parlamentari, si comprende ancora meglio la “strategia” suicida. 

In conclusione, lo stato di emergenza è solo la foglia di fico dietro cui si sono nascosti, e presumibilmente continueranno a farlo, componenti di istituzioni allo sbando. Sono loro che devono preoccupare, oltre all’emergenza ancora in atto.

P.S. Chi scrive aveva previsto qualche giorno fa la proroga dello stato di emergenza: le considerazioni svolte spiegano pure che, al di là di problemi di tipo sanitario, è la politica che pervade le istituzioni ciò che deve preoccupare

Foto: Governo.it

Questo articolo è stato pubblicato qui

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