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Un ambientalismo senza l’ambiente?

In una società dove tutto viene travisato e "geneticamente modificato" dalla mistificazione della Neolingua del "Big Brother" mediatico, c'è da meravigliarsi se si parte dall'ammissione della pesante impronta ecologica dell'Uomo sulla Terra per giungere a conclusioni opposte?

Un ambientalismo senza l'ambiente è quello che deve caratterizzare l'era definita "antropocene" da chi ha già deciso che "la Natura è finita"?

Ammetto di essere rimasto piuttosto colpito da un articolo di Bryan Walsh (editorialista di TIME e redattore del blog tematico “Ecocentric”) pubblicato sul numero del 12 marzo scorso di quella nota rivista. Visto il titolo (“Nature is Over” ovvero “La Natura à finita”), di per sé eloquente, m’incuriosiva capire anche in che modo l’analisi della questione ambientale si collocasse fra le “10 idee che vi stanno cambiando la vita”, cui era dedicato quel numero e la copertina di TIME.

Si trattava di una originale rassegna delle novità che stanno incidendo profondamente sul nostro modo di vivere, modificando la percezione stessa che abbiamo della realtà. Si va dalla "normalità" del vivere da soli alla tendenza a vivere con la testa nella "nuvola" informatica; dalla conciliazione della privacy con la vita pubblica alle ricerche sul cibo che dura per sempre; dalla religione senza chiese alla black irony...

Ebbene, in mezzo a questi eterogenei “segni dei tempi” è inserito l’articolo in questione che, già nel titolo, lascia trasparire la nuova concezione dell’ecologia di cui l’autore sembra farsi profeta, partendo proprio da una spietata analisi di quanto l’umanità abbia già, drammaticamente quanto rapidamente, cambiato il volto del nostro pianeta.

Nessun ecologista, in effetti, può accusare Bryan Walsh di reticenza nel declinare i fenomeni che stanno lasciando una profonda ed irreversibile impronta antropica sulla Terra. Direi, anzi, che la sua pur breve analisi risulta ampiamente significativa e non lo colloca certo fra i ‘negazionisti’ della tragedia ambientale e delle responsabilità del genere umano, di cui viceversa si mostra perfettamente consapevole.

In poche ma citabili righe, infatti, egli ci ricorda che:

Per una specie esistente per meno dell’1% dei 4 miliardi e mezzo di storia della Terra, l’homo sapiens ha certamente impresso il proprio marchio sul posto. Gli umani hanno un impatto diretto su oltre tre quarti del suolo terrestre libero da ghiacci. Circa il 90% dell’attività degli impianti mondiali risiede ora in ecosistemi dove le persone giocano un ruolo significativo. Abbiamo estirpato le foreste originarie da gran parte del Nord America e dell’Europa ed abbiamo aiutato la spinta verso l’estinzione di decine di migliaia di specie. Perfino nei vasti oceani, tra le poche aree del pianeta disabitate dagli umani, è stata avvertita la nostra presenza, a causa dell’eccessiva pesca e dell’inquinamento marino. Attraverso i fertilizzanti artificiali – che hanno drammaticamente accresciuto la produzione alimentare e, con essa, la popolazione umana – abbiamo trasformato ingenti quantità di azoto da gas inerte nella nostra atmosfera in principio attivo nel nostro suolo, il cui deflusso ha creato enormi zone acquatiche morte nelle aree costiere. E tutta l’anidride carbonica che emettono gli oltre 7 miliardi di esseri umani sulla Terra sta rapidamente cambiando il clima e sta alterando la natura stessa del pianeta.

Dopo questa spietata requisitoria sul devastante impatto umano sull’ambiente naturale ci saremmo aspettati una sonora predica ecologista ma, come sospettavo, l’articolo assume improvvisamente una piega ben diversa. La nuova strategia delle potenze economico-politiche che decidono le scelte economiche mondiali, a quanto pare, non è più (o quanto meno non è più solamente) quella di negare spudoratamente ogni responsabilità del cosiddetto "sviluppo umano" nella distruzione degli ecosistemi. Ormai da qualche tempo, infatti, l’orwelliana Neolingua ci sta abituando ad un’operazione psicologico-comunicativa più sottile ed insidiosa. Basta smontare le contestazioni dei soliti “protestanti” modificando il senso stesso delle parole e rimodellando i concetti a proprio uso e consumo. Che si tratti di spedizioni belliche che diventano “missioni umanitarie” oppure dell’azzeramento delle garanzie dei lavoratori spacciato per “lotta alla precarietà”, il Newspeak di chi decide sulle nostre teste – forte della complicità dei media e della pigrizia mentale di troppi che hanno rinunciato a pensare colla propria testa - appare costantemente improntato alla mistificazione, al travisamento delle idee, al capovolgimento del senso delle parole fondamentali.

Tra la “pars destruens” iniziale dell’articolo e quella finale, da cui scaturisce la proposta di giungere ad un "nuovo ambientalismo... senza l’ambiente", non può mancare ovviamente una significativa parte centrale. Se è vero che, per colpa dell’uomo, “la natura è finita” – come recita drasticamente il titolo dell’articolo – l’autore non può non cercare gli spunti più opportuni per presentarci e motivare la sua "scoperta". Premesso che alcuni scienziati ritengono che abbiamo già abbandonato l’era geologica denominata Olocene, entrando nell’Antropocene o età dell’uomo – argomenta Walsh - è evidente che occorre rivedere il nostro modo di affrontare il rapporto uomo-natura.

Ecco allora che riporta questa lapidaria quanto allarmante citazione del premio Nobel Paul Crutzen: “Non si tratta più di noi contro la ‘Natura’. Piuttosto, siamo noi che decidiamo che cosa la natura è e che cosa sarà.”

Bastano poche parole ed ecco che la Natura con la enne maiuscola, vagamente evocativa d’una mente creatrice e di una legge trascendente, è degradata ad una realtà che non ha più nulla di assoluto e stabile, ragion per cui l’Uomo può continuare indisturbato la sua opera per trasformarla a proprio uso e consumo. Ma questa sminuita ‘natura’, quasi del tutto sottoposta all’antropocentrica dominazione umana, secondo il giornalista ed il suo nume ispiratore non avrebbe più alcun bisogno d’essere “preservata”. L’Antropocene esige un drastico cambiamento per l’ambientalismo - argomenta Walsh - per cui possiamo ormai buttare in soffitta la vecchia concezione “conservatrice” dell’ecologismo classico, che percepiva le persone come una minaccia all’ambiente naturale.

La sua sconcertante conclusione è la seguente: 

La realtà è che nell’Antropocene non c’è semplicemente posto per la natura, almeno quella che abbiamo conosciuto e celebrato – un qualcosa di separato dagli esseri umani, un qualcosa di originario. Non c’è nessun ritorno al Giardino edenico, ammesso che sia mai esistito. Per gli ambientalisti, ciò significherà cambiare le strategie, trovare metodi di conservazione che siano più favorevoli alla gente e che consentano alla realtà naturale di coesistere con lo sviluppo umano. Ciò significa, se non proprio abbracciare l’influenza umana sul pianeta, quanto meno accettarla.

A che diavolo serve buttare un sacco di denaro per preservare gli ultimi esemplari d’ipotetici “ecosistemi naturali” – si chiede retoricamente Walsh – quando abbiamo la prova che la natura stessa, se e quando vuole, dimostra tutta la sua “resilienza”, cioè l’incredibile capacità di recuperare da sola i propri equilibri? L’esempio citato è, ovviamente, quello della parziale auto-riparazione della fascia di ozono ‘bucata’ all’Antartide dalle nostre spensierate emissioni di CFC ma, naturalmente, si omette di precisare che una qualche influenza in questo fenomeno positivo avranno pur avuto le normative che, ormai da decenni, hanno vietato l’utilizzo di queste inutili e dannose sostanze gassose.

Il teorema dell’ambientalismo senza ambiente, a questo punto, è quasi del tutto enunciato, utilizzando in modo specioso proprio una delle argomentazioni degli ambientalisti, o almeno di quelli che da tempo escludono un ecologismo fondamentalista e biocentrico, riconoscendo il giusto valore all’uomo non come centro dell’universo, ma come parte importante di una globalità biologica. Il fatto che egli si sia autodefinito “sapiens”, però, non significa affatto che la sua mente pensante e la sua attitudine ad adattare a sé l’ambiente circostante gli diano il diritto di modellare la Terra a propria immagine e somiglianza.

Essere contrari alla “deep ecology” di chi venera una Natura che prescinde dall’uomo, d’altra parte, non vuol dire ripiombare nel tradizionale antropocentrismo di chi ha sempre cercato ogni pretesto – compresa una lettura superficiale delle Sacre Scritture – per teorizzare il dominio assoluto dell’Uomo sulla natura.

La caratteristica “sistemica” degli ambienti terrestri e la stessa legge della biodiversità ci parlano di armonia, di equilibrio, d’integrazione in una realtà naturale in cui gli esseri umani possono e devono svolgere il ruolo che spetta a chi ha la consapevolezza, e quindi la responsabilità, di una preziosa integrità da salvaguardare.

Come credente, infatti, sono convinto che sia questo il compito di chi è stato posto come “custode” del creato e non come sfruttatore di un bene comune che deve amministrare saggiamente. Ma anche nella prospettiva di un semplice ambientalista, che rifugge da ogni integralismo e non ritiene affatto che l’umanità debba essere nemica della natura o sua vittima passiva, sono preoccupato per la deriva ideologica cui stiamo assistendo, di cui l’articolo citato mi sembra un’evidente dimostrazione.

Alla prima parte (la denuncia) ed alla seconda (la teoria), segue infatti la “pars construens”, cioè l’ipotesi d’un ambientalismo completamente nuovo. Per regolare l’Antropocene – argomenta mellifluo Walsh – c’è bisogno di molto più di provvedimenti che mettano al bando determinate sostanze o attività inquinanti. Ed aggiunge, con un sibilo degno dell’antico "tentatore" dei nostri progenitori:

Significa anche promuovere proprio quel tipo di tecnologie cui gli ambientalisti si sono spesso opposti, dall’energia nucleare [...] ai cereali geneticamente modificati, che ci possono consentire di coltivare più sostanze alimentari in meno terreno, preservando spazio prezioso per l’ambiente naturale...

Qui la mistificazione del Bispensiero e della Neolingua – entrambi profetizzati oltre mezzo secolo fa dal grande Orwell – raggiunge il suo vertice. Per diventare dei neo-ambientalisti – secondo l’editorialista del TIME – dovremmo infatti operare una profonda “conversione”, rinnegando gli spiriti scompostamente antinuclearisti ed anti-OGM del vetero-ecologismo ed abbracciando fiduciosamente il modello di sviluppo che il dio-Mercato ci sta offrendo generosamente. Le coltivazioni geneticamente modificate lasciano più spazio alla natura e le centrali nucleari, sebbene un po’ rischiose, sono la massima fonte energetica priva di emissioni carboniche. Privilegiare le città – prosegue insinuante Walsh – è una scelta ottimale, perché il modello di convivenza urbano, secondo lui, è “...la sistemazione più sostenibile ed efficiente del pianeta” 

Per non parlare poi delle emissioni di gas-serra, che i neo-ambientalisti sono invitati a combattere in modo quanto meno originale, cioè ricorrendo alla geo-ingegneria, e quindi impiegando sistemi come nuvole artificiali o altre diavolerie tecnologiche, capaci di ridurre direttamente la temperatura globale.

La lirica chiusa dell’articolo - ribaltando opportunisticamente il concetto dell’Uomo-giardiniere del pianeta col richiamo ad un concetto capovolto di “responsabilità” – è il degno coronamento di questo esemplare saggio di manipolazione mediatica delle nostre menti:

Siamo stati felici per l’esistenza di molte delle nostre specie, benedetti dal clima gradevolmente caldo dell’Olocene, abili a disseminare i nostri crescenti numeri lungo un pianeta apparentemente senza limiti. Ma quel tempo è passato, rimpiazzato dall’incertezza dell’Antropocene, che i geologi decidano o meno di chiamarlo formalmente così. Saremo noi a decidere se gli esseri umani continueranno a prosperare o a bruciare, sottomettendo il pianeta lungo il percorso. Può essere una realtà infelice, perché non c’è nessuna che l’Antropocene – affollato da miliardi di esseri umani – sarà favorevole alla vita come lo erano stati i 12.000 anni precedenti. “Noi siamo dei – scrive l’ambientalista e futurista Stewart Brand – e dobbiamo ottenerne il bene".

A quanto pare, essere dei buoni ambientalisti, oggi, significa saper scommettere coraggiosamente sulle capacità dell’uomo, accettando il rischio di un ambiente quasi del tutto antropizzato e molto lontano da una "naturalità" velata di nostalgico romanticismo.

In questa modificazione genetica del significato stesso di ambientalismo un ruolo non secondario ha giocato l’uso ambiguo del concetto di "sostenibilità", intesa come un astratto richiamo non tanto alla capacità della Terra di resistere all’impronta devastante di uno sviluppo senza limiti, bensì alla capacità dell’uomo di creare uno sviluppo il più possibile durevole e meno dannoso alla sua esistenza.

Come ha recentemente scritto l’amico Antonio D’Acunto: “La questione centrale che dobbiamo porci è quella di cancellare i termini sostenibile, sostenibilità, sviluppo sostenibile dal vocabolario delle Associazioni ambientaliste, [...] a meno che naturalmente non viene specificata, ma non lo si fa mai e come lo si potrebbe quando si propone l’esatto opposto, che la sola sostenibilità, oggettivamente e scientificamente possibile, è quella di processi ed attività umana che avvengono secondo la morale del Pianeta ovvero le leggi della Natura.” (La sciagurata farsa del governo italiano per Rio+20”, marzo 2012).

E’ proprio in nome di una presunta “sostenibilità”, del resto, il nostro governo “tecnico” sta cercando subdolamente di riportare a galla scelte che i cittadini italiani hanno già condannato, come le centrali nucleari e le coltivazioni OGM, giungendo ad ipotizzare pesanti tagli alle energie rinnovabili per rilanciare l’assurda idea di trivellazioni petrolifere in aree di notevole pregio ambientale del nostro Paese.

Far finta di non accorgersi di questa diffusa strategia di mistificazione e di capovolgimento dei principi dello stesso ambientalismo, a questo punto, non è più possibile. L’idea stessa di Antropocene rispecchia solo la fantasia malsana di chi – per coprire gli sporchi interessi di chi sfrutta e inquina – finge di non sapere che l’uomo è parte di un equilibrio ecologico senza il quale ed al di fuori del quale, semplicemente, egli non esisterebbe affatto.

Sì, ha ragione Walsh quando dice che è passato il tempo in cui l’umanità si vedeva contrapposta alla natura, ma solo nel senso che l’unico vero nemico dell’uomo è l’uomo stesso e la sua arrogante presunzione di perseguire uno sviluppo illimitato quanto irresponsabile.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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