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Tortura: un triste primato italiano

L'Italia ha un primato negativo: la totale assenza nell'ordinamento di una norma penale che preveda e punisca la tortura. Nonostante l’Italia abbia ratificato diverse convenzioni siamo ancora qui ad attendere una risposta da parte del Legislatore che ne dia concreta attuazione.

 

Ci sono diversi motivi per cui a volte mi vergogno profondamente di vivere in Italia. Il nostro Paese è uno dei pochi tra quelli che amano definirsi “civilizzati” che ancora non riconosce giuridicamente le unioni omosessuali, che ha un sistema penitenziario dissestato (volendo usare un eufemismo), che contempla una disciplina estremamente restrittiva in materia di cellule staminali, che non garantisce veri diritti a tutti quegli stranieri che varcano i suoi confini nazionali, e potrei continuare all’infinito questo triste e sconsolante elenco.

Tuttavia, uno dei primati negativi italiani che mi preme trattare (anche alla luce di una recente pronuncia della Corte d’Assise di Roma inerente il caso Cucchi) è la totale assenza nel nostro ordinamento di una norma penale che preveda e punisca la tortura. Quando parliamo di tortura siamo naturalmente portati a pensare a quegli strani marchingegni che si trovano nelle segrete di antichi castelli. La tortura, invece, è qualcosa di più attuale e con cui quotidianamente conviviamo. Amnesty International, all’interno del Rapporto annuale dello scorso anno, ha inserito il Bel Paese tra quegli Stati (112 in tutto) nei quali si sono verificati episodi di tortura.

Amnesty lamenta in particolare il fatto che il nostro Paese non ha ancora legiferato alcuna norma penale che preveda e punisca il reato di tortura. Nonostante l’Italia abbia ratificato diverse convenzioni (Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950; Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966; Convenzione dell’ONU contro la tortura del 27 giugno 1987 e la Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti del 26 novembre 1987) in cui la tortura veniva qualificata come un reato e di conseguenza risultava penalmente perseguibile, non ha mai provveduto a dare concreta attuazione a tali convenzioni.

Sulla base di suddette convenzioni e anche sulla base di quanto disposto dall’articolo 13 comma 4 della Costituzione (“È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà”), i governi italiani, da più di 20 anni, stanno lavorando per dare alla luce una norma che preveda e punisca la tortura. Un lavoro che fino a questo momento non ha portato ad alcun effettivo risultato. Se la norma in questione venisse finalmente approvata, rappresenterebbe un passo significativo per chiarire con nettezza quali sono i limiti dell’esercizio della forza e dell’esercizio dei pubblici poteri rispetto alle esigenze investigative o di polizia.

Stefano Cucchi

Eppure di casi eclatanti che avrebbero dovuto dare un colpo di acceleratore a questi lavori ce ne sono stati molti. Citando il Rapporto annuale 2012 di Amnesty International, posso ricordare: il caso Giuliani, quello Aldrovandi, quello di Bianzino e infine quello relativo alla vicenda di Stefano Cucchi.

Con riferimento a quest’ultimo episodio, abbiamo avuto modo di assistere, agli inizi del mese di giugno, alla pronuncia della Corte d’Assise di Roma con cui il collegio giudicante condannava in primo grado quattro medici dell’ospedale “Sandro Pertini” di Roma a un anno e quattro mesi, il primario a due anni di reclusione per omicidio colposo (con pena sospesa) e un medico a 8 mesi per falso ideologico; mentre assolveva sei tra infermieri e guardie penitenziarie, i quali, secondo i giudici, non avrebbero in alcun modo contribuito alla morte di Stefano Cucchi.

Per capire meglio le motivazioni della sentenza (per le quali bisognerà comunque attendere 90 giorni dalla data della lettura del dispositivo in udienza), è bene ripercorrere le principali tappe di una vicenda che ha sollevato tanto scalpore e indignazione. Nel 2009, durante un ordinario giro di pattuglia, alcuni agenti fermavano Stefano Cucchi e rinvenivano in suo possesso 21 grammi di hashish. A seguito di questo accadimento, venivano disposti il fermo del giovane e la sua custodia cautelare carceraria. Durante questo periodo di custodia cautelare, Cucchi riportava diverse lesioni ed ecchimosi che andarono a peggiorare il suo già fragile stato di salute (il giovane infatti era tossicodipendente e, all’ingresso in Regina Coeli, pesava solo 43 kg). Così, a seguito di tale aggravamento, Cucchi veniva urgentemente ricoverato presso l’ospedale “Sandro Pertini” della Capitale dove, dopo poche ore dal ricovero, moriva.

I medici dell’ospedale romano, nel corso dell’autopsia, rilevarono sul corpo del giovane diverse lesioni ed ecchimosi alle gambe, al viso (inclusa una frattura alla mascella), all’addome (una emorragia alla vescica) e al torace (due fratture alla colonna vertebrale). Si trattava di lesioni e fratture difficilmente spiegabili se non quali conseguenze di un violento pestaggio. Tuttavia, il personale carcerario, cui era affidato il giovane, negò di aver picchiato lo stesso e sostenne che il decesso di Cucchi poteva essere dipeso dal suo stato di tossicodipendente o comunque dalle sue già precarie condizioni di salute.

Nonostante le indagini della Procura e le relazioni stilate dai periti di parte civile, la Corte d’Assise di Roma non ha ritenuto che sussistesse alcun nesso causale tra le condotte tenute dagli agenti penitenziari e la morte del giovane. Una decisione che ha suscitato indignazione e che è pronta per essere sottoposta al vaglio della Corte d’Appello. Diverso è stato l’esito della vicenda giudiziaria relativa alla morte di Federico Aldrovandi, il diciottenne deceduto il 6 luglio 2009 a Bologna a seguito del pestaggio da parte di quattro poliziotti. In questo caso, la Corte di Cassazione ha confermato la condanna dei tre agenti per eccesso colposo in omicidio colposo.

È indubbio che il lavoro dei giudici risulterebbe più semplice se il Legislatore italiano finalmente si decidesse a emanare una norma che con chiarezza preveda e punisca il reato di tortura di modo da non dare più adito ad alcun tipo di dubbio circa la configurabilità penale di certe condotte tenute da agenti di polizia. Spesso, infatti, accade che alcuni agenti, forti della loro posizione, tengano condotte ai confini della legalità. Si tratterebbe semplicemente di recepire quanto già disposto a livello internazionale ed europeo, senza la necessità di alcuno “sforzo creativo” da parte dei nostri parlamentari. Tuttavia, dopo 20 anni, siamo ancora qui ad attendere una risposta da parte del nostro Legislatore che sembra (come del resto accade per altri numerosi temi) aver adottato la tecnica del rinvio, un rinvio che oggi è giunto al termine.

 

Marcello Bonazzi

 

 

 

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