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Toghe arcobaleno: fede e ragione, deontologia e diritto

Avevamo parlato qualche tempo fa in questi spazi di uno ‘strano’ concorso abilitante all’insegnamento del diritto ecclesiastico (cioè di quel diritto che regolamenta il rapporto Stato-Chiesa) nelle nostre università. Concorso affidato ad una commissione pesantemente orientata, tra Opus Dei e DC d’antan, e che sembrava avesse bocciato i candidati più su basi ideologiche che meritocratiche. E che, in ogni caso, rendeva scottante il quesito se fosse possibile e giusto che a giudicare dell’idoneità per università pubbliche fossero docenti di un’istituzione privata confessionalmente impositiva (obbliga infatti alla professio fidei) quale l’Università Cattolica del Sacro Cuore. Di sicuro però il problema sotteso resta più generale, se cioè un’appartenenza fortemente connotata in senso religioso possa comunque assicurare quell’imparzialità dell’Amministrazione necessaria ex art. 97 Cost., assicurare quel valore aggiunto e necessario che fa del funzionario statale un civil servant a tutti gli effetti.

Problema che, mutatis mutandis, è stato sollevato con certo maggiore risonanza in questi giorni dall’affaire Deodato (nomen omen), il giudice estensore della sentenza del Consiglio di Stato che annulla definitivamente la possibilità di trascrizioni di matrimoni omosessuali. E che pone una pietra tombale sulla possibilità di matrimoni same sex sulla base della vigente normativa (la diversità fra sessi sarebbe requisito ontologico, per il CdS). Deodato, si diceva, è infatti un simpatizzante di Comunione e Liberazione e condivide sui social i messaggi del movimento integralista delle Sentinelle in piedi. Quel movimento che manifesta contro i diritti altrui. Quello nato, appunto, per ostacolare il riconoscimento delle unioni omosessuali.

Il che, in effetti, è “un po’ più” che essere cattolici. O anche un po’ meno, a ben guardare le statistiche che vogliono la maggioranza degli italiani favorevoli alle unioni civili. E per quanto si suppone la decisione sia collegiale, l’estensore è figura di rilievo, tanto da rendere lecito il quesito se da parte del CdS ci sia stata ingenuità, sfrontatezza o scelta precisa di mostrare la capacità decisoria a prescindere dalle valutazioni personali (che, assicura lo stesso Deodato, non hanno avuto alcuna influenza).

deodato-twitter

A ogni modo, la sentenza contiene l’ennesimo invito alla politica a introdurre il principio nell’ordinamento, se si vuole vederlo riconosciuto. Perché, in effetti, del ddl Cirinnà si dice che “sarà legge entro tre mesi” da due anni, e tutto lascia supporre sia ben lontana una soluzione. Siamo rimasti l’unico paese dell’Europa occidentale a non avere uno straccio di normativa a tutela delle coppie di fatto, siamo stati condannati dalla Corte Europea dei Diritti Umani (sentenza peraltro appena divenuta definitiva e che preannuncia ulteriori ricorsi) e no, non è colpa di Carlo Deodato. E nemmeno del suo collega di collegio, numerario dell’Opus Dei.

La colpa in questo caso continua a essere di una classe politica pavida e incline agli inutili compromessi al ribasso di stampo clerical-reazionario. Eppure il problema sostanziale, che va oltre persino la questione al momento centrale delle unioni civili, della possibilità di neutralità e imparzialità cioè in caso di stretta connessione confessionale ad altro sistema, sia valoriale che giuridico, resta e rimane. E non riguarda soltanto il momento decisorio. Dove è legittimo chiedersi quanto appartenenze totali e totalizzanti ad ordinamenti esterni a quello del quale si è ‘servitori’ possano comunque assicurare neutralità e imparzialità. Ma dove è pur vero che non è pensabile né auspicabile una semplice trasposizione asettica delle norme. Anzi, vanno salvaguardate la discrezionalità e anche l’umanità del singolo magistrato. Con le capacità, interpretativa e di adattamento delle leggi, che ne conseguono o che quantomeno ne dovrebbero conseguire.

Ma il problema riguarda, ancor prima, lo stesso procedimento selettivo dei giurisperiti in vario senso intesi, e in vario senso al servizio dello Stato. Dove questa appartenenza confessionale sembrerebbe addirittura assurgere a precondizione, a prerequisito di legittimità. Nel caso del concorso di cui si diceva all’inizio, peraltro, una prima conferma che non solo di sussurri di corridoio si tratti arriva proprio dal Tar Lazio che, accogliendo in larghissima parte le motivazioni del ricorrente, quello Zannotti contro il quale si era scagliato Avvenire, annulla per ora la sua bocciatura eccellente. Seguiranno sviluppi.

Per quanto riguarda il mondo del diritto globalmente inteso, resta da chiedersi non solo se e quanto possa favorire la devozione, ma anche di converso quanto possa pesare il non averla. Al magistrato, Luigi Tosti, che del rifiuto a prestare servizio sotto il simbolo confessionale del crocifisso ha fatto una battaglia, benissimo non è andata: radiato dall’Ordine. Al di là di casi specifici, va detto che non si chiede certo uno pseudo manuale Cencelli del mondo del diritto, con spartizione proporzionale. (Ai non credenti toccherebbe almeno un magistrato su sei, in tal caso. Amara battuta.) Piuttosto, ci si augura che, secondo diritto, l’essere religioso (in certi casi, spudoratamente baciapile) non sia motivo bastevole per favorire carriere pubbliche. E che il non esserlo, religioso, non le ostacoli.

Dura lex, sed lex.

Adele Orioli, responsabile iniziative legali Uaar

Articolo pubblicato sul blog di MicroMega il primo novembre 2015.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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