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Terraferma: alla ricerca di un approdo che garantisca una vita degna

Il dramma dell’emigrazione clandestina e il valore della solidarietà umana sono i motivi portanti di “Terraferma”, il film di Emanuele Crialese candidato all’Oscar

Terraferma di Emanuele Crialese è la pellicola italiana candidata agli Oscar 2012 per il miglior film straniero. Scelto tra tre film dalla Commissione Anica per rappresentare la cinematografia italiana, è stato preferito a Habemus Papam di Nanni Moretti e a Noi credevamo di Mario Martone. Che questo film sia stato scelto come candidato agli Oscar ci lusinga, perché un’opera di tanta bellezza potrà, così, avere maggiore visibilità e tutta la pubblicità che merita.

Il film, prodotto da Cattleya e Rai Cinema, ha ricevuto il Premio speciale della Giuria alla 68ª edizione della Mostra cinematografica di Venezia. La storia è quella di sempre, è la storia degli uomini che migrano, moltitudine di genti che si sposta da una terra a un’altra in cerca di approdo: la terra definitiva, l’ultima meta. In una piccola isola tra l’Africa e l’Italia (Linosa nel film, Lampedusa nella cronaca) che si staglia nel mar Mediterraneo, vive una famiglia di pescatori, la cui esistenza si intreccerà con quella degli immigrati clandestini.

Il vecchio patriarca Ernesto (Mimmo Cuticchio) è il pescatore che conosce la legge del mare e la solidarietà, che si scontreranno presto con i diktat del potere, quando porterà in salvo dei clandestini che stanno per annegare. Egli non accetta la legge dello “Stato” per cui la vita del naufrago non solo non vale nulla, ma è l’agnello da sacrificare in nome della propaganda razzista, per la quale è meglio lasciar affogare i clandestini anziché soccorrerli. Tuttavia, il vecchio non ha esitazioni o dubbi e, quasi in silenzio, con gesti e sguardi, saprà indicare sempre con pazienza la via giusta.

La nuova generazione è rappresentata dal giovane figlio Nino (Giuseppe Fiorello) e dall’adolescente nipote Filippo (Filippo Pucillo). Tra i due il contrasto diventerà sempre più forte. Il primo è ammaliato dall’idea che il riscatto da una vita di faticoso lavoro si possa facilmente ottenere col cinismo, cancellando le proprie tradizioni nella vacua ricerca di false libertà e intrattenendo in maniera superficiale e volgare orge di turisti interessati solo a divertirsi. Nino resterà così prigioniero dei propri pregiudizi e della propria miseria. Il ruolo è perfettamente interpretato da Peppe Fiorello, non nuovo a questo tipo di “maschera” (vedi C’era un cinese in coma di Carlo Verdone).

L’adolescente nipote Filippo appare insicuro, disorientato tra il “vecchio” e il “nuovo“, spaventato dagli eventi. Diventa persino crudele, quando, fuori di sé dalla paura per ciò che ancora non comprende, impedisce con violenza a dei naufraghi di aggrapparsi alla piccola barca con la quale porta in giro una ragazza (spaesata turista del Nord) in cerca di emozioni. Sarà, invece, una scena da Inferno dantesco quella che si presenterà ai loro occhi: mani disperate si aggrappano al bordo dell’imbarcazione, ma i naufraghi sono troppi, la barca si capovolgerebbe, Filippo non ha altra scelta che scacciarli.

Il ragazzo ometterà di avvisare le autorità della presenza in mare dei clandestini e, tormentato dal senso di colpa, troverà il riscatto dal suo gesto riprovevole nella scena finale del film: rompendo i sigilli posti dalla “legge” alla sua barca, in una notte uguale all’altra porterà sulla terraferma la donna e i suoi bambini che il nonno Ernesto aveva salvato. Filippo si ribellerà e diventerà così un uomo libero, in grado di compiere delle scelte consapevoli.

Le donne protagoniste sono due madri, una bianca, Giulietta (Donatella Finocchiaro), vedova del mare, l’altra nera, Sara (Timnit T), umiliata e violentata. Nella scena più intensa del film esse si fronteggiano in un lungo controcampo: nei loro sguardi riluce paura e, nello stesso tempo, speranza. Hanno, però, un unico fine: salvare i propri figli. Per loro l’isola è un approdo momentaneo al quale appoggiarsi e in cui sostare per poi cercare una nuova terra che possa garantire una vita degna alla loro progenie. L’inquadratura delle loro facce in primo piano mostra quasi un unico volto, che esprime il dolore, la lotta, la tenacia. I visi quasi si sovrappongono, mostrando tante piccole infinite imperfezioni che li rendono bellissimi, da mozzare il fiato. Giulietta e Sara troveranno, infine, la propria strada.

In Terraferma ogni cosa appare gigantesca rispetto agli uomini: la roccia e la spiaggia nere di terra lavica sono l’approdo, la barca che mostra il suo ventre gigantesco è il legno che galleggia al quale aggrapparsi per non morire. Crialese inquadra una natura perfetta nella sua crudezza, mentre gli uomini, nella loro, appaiono imperfetti. Poi, nella scena finale, tutto diventa nuovamente piccolissimo, anche la barca con la quale Filippo porta in salvo Sara e i suoi due bambini: come nell’epilogo di Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, resta solo il mare, «là dove il mare è mare», immenso e profondo, che diventa il percorso attraverso il quale gli uomini si incontrano e si mescolano.

L’immagine: la locandina di Terraferma.

Mariella Arcudi

(LM MAGAZINE n. 20, 15 ottobre 2011, supplemento a LucidaMente, anno VI, n. 70, ottobre 2011)

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