Tema: parla dell’Unità d’Italia
Svolgimento:
Quand’ero piccolo sapevo che nel 1861 l’Italia era diventata tale perché Garibaldi e Cavour, un giorno, avevano deciso di unificare “lo Stivale”. E così “l’eroe dei due mondi” (anche se in pochi si ricordano quale sia il “secondo mondo”) ha preso mille garibaldini ed è partito da Quarto per approdare a Marsala, da dove ha poi conquistato l’Italia meridionale salendo fino a Teano – mentre all’Aspromonte Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba – finché, di fronte al re Vittorio Emanuele II, disse «Obbedisco!»; e il paese si univa.
Poi sono cresciuto e ho letto e visto e sentito un sacco di cose discordanti. Il risultato è che il 17 marzo, questa tanto decantata festa nazionale solo per il 2011 che pagheremo noi, perché per coprirla sarà utilizzato il giorno festivo del 4 novembre, la mia azienda mi farà lavorare. Non che m’interessi più di tanto, non mi cambia un giovedì in più o un giovedì in meno, ma è curioso che i miei datori di lavoro, sponsor di “Esperienza Italia 150”, dell’Esperienza Italia se ne infischino facendo lavorare i dipendenti. Dettagli.
L’Unità d’Italia è un corso di Torino. Per il resto non so nemmeno cosa significhi, visto che non nutro stima dell’italiano medio. All’estero pensano di noi che siamo “mafia, pizza e mandolino”, che “italiani sempre mangiare”, che “Berlusconi, ahahahahah!”, che abbiamo il mare, il sole, le belle donne e la buona cucina, che è il paese delle vacanze e dei monumenti, dell’Arte, della Storia e della Cultura, Dante, Petrarca e Boccaccio, che siamo un popolo di “santi, poeti e navigatori”. Eccetera.
L’Unità d’Italia è una cosa geografica, perché “fatta Roma bisogna fare i romani”, e questo vecchio detto è ancora spaventosamente attuale. Se nel leggere un libro come “Il Gattopardo” si trovano centinaia di attinenze con il paese odierno, allora bisognerebbe chiedersi cosa realmente sia cambiato dal 1861 a oggi. E sì, faccio il polemico, come si dice di chi smorza così gli entusiasmi. Chiamatemi “comunista”, “anarchico”, “intellettuale snob”, “radical chic” e chi più ne ha più ne metta, tanto l’uso degli sproloqui è pratica comune.
Il popolo italiano che è orgoglioso di se stesso quando gioca la Nazionale di calcio, il popolo che il 17 marzo festeggia l’Unità, e poi durante l’anno se ne infischia del cosiddetto patriottismo, parla della Costituzione senza mai averla letta e poi sa tutto di Berlusconi che si opera, a me fa vergognare. Una volta un turista romeno, amico di un’amica, mi diede una lezione di civiltà semplice semplice. Ci trovavamo a Milano e stavamo fumando una sigaretta di fronte a un negozio. La sigaretta finisce, io la butto a terra, lui invece si guarda intorno e cammina per trenta metri per andare a spegnere il mozzicone sul marciapiede e gettarlo in un cestino. In quel momento mi sono vergognato: deve venire uno da fuori per insegnarmi a non sporcare in casa mia, anche se è già sporca. Però la Costituzione e il Tricolore e la cucina italiana e la Coppa del Mondo e Dante.
La Costituzione? Il primo articolo secondo me ha un difetto: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Io non la voglio fondata sul lavoro, la voglio fondata sull’individuo e, ancor più, sulla comunità di individui. Se la posizione sociale nonché l’essenza della persona è definita dal lavoro, allora saremo per sempre legati al lavoro snaturando l’uomo, e saremo in lotta tra noi per accaparrarci il lavoro e la posizione sociale. In questo senso trovo ottimi gli articoli 3 e 4 (art. 4, seconda parte: «Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società»). Però l’articolo 1 è il più bello, dicono. In realtà è il più conosciuto, perché è il primo ed è quello che tutti leggono prima di stufarsi. Salvo poi andarlo a declamare in giro manco fossero i padri costituenti. Non dico che la Costituzione faccia schifo, ma perché 945 parlamentari? Erano così necessari? E perché nessun limite all’indennità dei politici o l’obbligo di fare solo il politico? Abbiamo veramente bisogno dei Tribunali militari se non siamo in guerra? E le Province? Vabbé.
Poi, rileggendola, inciampo sull’articolo 27. Seconda parte: «L’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna». Teniamolo a mente quando seguiamo quegli appetitosi processi mediatici di cui va ghiotto un popolo intero che si dice “democratico”. Italia unita un paio di balle, più divisi di così, e su tutto, è veramente difficile. Ogni cosa finisce nel tritacarne della politica e “o stai di qua, o stai di là”. Bipartisan, par condicio, contraddittorio. Parole a sproposito che non vogliono dire assolutamente nulla. Ma che paese è questo? Io non festeggerò proprio niente. Mi spiace, non mi sento di appartenere a questo popolo, a questa Nazione sì, senza dubbio. Ma per me l’Unità d’Italia non è ancora avvenuta, e non festeggio perché sarebbe come festeggiare la vittoria di uno Scudetto alla decima giornata di campionato. E l'Unità d'Italia – questa è per i torinesi infatuati di città e 17 marzo – significa anche Torino defraudata del proprio ruolo di capitale.
Mi vergogno di una mentalità completamente folle che droga pure me, mi sono stufato di andare all’estero e sentirmi prendere in giro perché italiano. Non mi vergogno dell’Italia, ma degli italiani. Ripeto, compreso me. Quando siamo prevenuti nei confronti dei romeni, degli albanesi, eccetera, ricordiamoci che in Francia, Germania, Inghilterra, USA – i paesi che di solito guardiamo con ammirazione – gli “albanesi” e i “romeni” siamo noi.
Italiani, eh? Andate a Trento o Bolzano e chiedete agli abitanti quanto si sentano italiani, andate a Scampia a chiedere se qualcuno abbia mai visto lo Stato, anche di sfuggita. Andate in Sicilia dove manca l’acqua e fatevi dire quanto non vedano l’ora di avere un magnifico e italianissimo ponte sullo Stretto. L’Italia unita dove per andare da Roma a Reggio Calabria bisogna pregare di sopravvivere ai lavori sull’autostrada. Cosa è stato fatto in 150 anni? Cosa festeggiamo? Mi sembra solo l’ennesima, e italiana, messa in scena per far vedere che va tutto bene e siamo tanto belli e bravi. E poi dal 18 marzo in poi chi se ne frega dell’Italia perché “da questo paese di m***a me ne voglio andare, e i politici sono tutti corrotti, e non c’è lavoro, e voglio andare in Inghilterra”. No, tu vuoi andare a quel paese. Non sbandierare il Tricolore se ci sputi sopra non appena vedi le stelle e le strisce con Obama che ti fa l’occhiolino.
Dov’è l’orgoglio dell’Inno di Mameli di fronte a un televisore con la maglia azzurra addosso se poi alla prima occasione tentiamo la fuga? Sì, il paese va a rotoli, quindi scappiamo? Mi spiace, ma non credo proprio. Una volta la pensavo ottusamente così, ora invece ho cambiato idea. Finché potrò fare qualcosa per il mio paese, resterò qui e nel mio piccolo cercherò di costruire del buono. E se un giorno dovessi andarmene per cause di forza maggiore, tenterò di fare qualcosa anche da là. Non volto le spalle al mio paese solo perché è abitato da una massa di deficienti, ignoranti, presuntuosi, empi e inconcludenti. Ma, per favore, non venitemi a parlare di Italia unita perché c’è talmente tanto lavoro da fare che possiamo solo essere contenti di aver aperto il cantiere italiano. Ammettendo di averlo aperto.
Intanto, visto che la Costituzione è ora il feticcio della macchina pubblicitaria a tre colori, è il caso di leggersela e, invece di celebrarla come la manna dal cielo, è il caso anche di criticarla e capire se non possa essere corretta o aggiornata, se il tipo di società insoddisfacente che viviamo parta da lì oppure no. Visto che si parla di Costituzione, parliamo di Costituzione.
E scusate se sono andato fuori tema, se non ho parlato del Risorgimento, se non ho detto che Garibaldi era un figo e se sono sempre il solito rompiballe. Probabilmente avrò torto, ma non è colpa mia, come disse Brecht: «Ci sedemmo dalla parte del torto perché gli altri posti erano tutti occupati». Non potevo fare altrimenti. Oh, scusate ancora, non ho citato un italiano. Chi se ne importa.
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