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Tecnofollie: ciò che sarebbe bello evitare (se solo fosse possibile)

Pare che la falla della Deepwater Horizon sia stata finalmente richiusa (anche se i guai della BP probabilmente non finiscono qui). Tiriamo tutti un sospiro di sollievo. Anche se l’acqua non è ritornata pulita. Siamo contenti perché poteva andare peggio, come si dice in questi casi. O perché il peggio è passato.

Purtroppo questa seconda affermazione dobbiamo lasciarla a mezz’aria, in attesa di tempi migliori: una seconda ondata di petrolio (4 milioni di litri) sta fuoriuscendo da un oledotto riversandosi nel fiume statunitense Kalamazoo, che sfocia nel lago Michigan.

In Cina non se la cavano molto meglio. Nel porto di Dalian due oleodotti sono esplosi il 16 luglio scorso, riversando in mare diverse tonnellate di petrolio, la cui sagoma si estende fino alle acque internazionali (anche qui potremmo - magramente - consolarci: secondo il «National Business Daily» di Shanghai, i depositi di petrolio gestiti dalla Petrochina e dal porto di Dalian erano da tempo considerati a rischio, a causa della scarsa ventilazione e dell’alta quantità di zolfo contenuta nel petrolio importato dall’Arabia Saudita. Chissà, forse si sarebbe potuto evitare, proprio come nel Golfo del Messico).

Quello che ha colpito l’India è invece un incidente bello e buono: la petroliera Chitra si è scontrata sabato 7 agosto con un’altra nave cargo a circa 3 chilometri dalla costa di Mumbai: il carico di carburanti - composto da oltre 1.200 container contenenti sostanze chimiche e oltre 2 mila tonnellate di benzina, gasolio e lubrificanti - si sta riversando in mare alla velocità di 5 tonnellate all’ora. La marea nera si è già estesa per diversi chilometri e ha toccato un villaggio sulla costa.
La Malesia, nel suo piccolo, chiude alcuni impianti in seguito a perdite (la cui entità non è meglio specificata) di petrolio da alcune piattaforme situate a circa 240 chilometri dalla costa.

A ciascuno il suo. Ecco cosa sembra ronzare oggi per la testa di molti esponenti politici dell’area europea (che non ha ancora avuto il proprio disastro petrolifero su ampia scala). Aumenta la preoccupazione: ed ecco che il ministro dell’Ambiente turco, Veysel Eroğlu, comincia a dichiarare che «il trasporto su petroliera attraverso lo Stretto del Bosforo non è più sostenibile» (ricordando come in quelle acque si siano già riversate, negli ultimi 15 anni, circa 115.000 tonnellate di petrolio); ecco che la UE si affretta a richiedere “nuove regole” (come dopo la crisi finanziaria) di sicurezza per le trivellazioni offshore; perfino il nostro ministro dell’ambiente si preoccupa per le trivellazioni in Libia.

Che qualcosa stia cambiando nella nostra “incoscienza collettiva di fronte al rischio” (Jacques Attali)? Due settimane fa il nuovo ad (il vecchio è stato rimosso, seppur al costo di 14 milioni di euro) della British Petroleum, Bob Dudley, ha dichiarato che bisogna «cambiare realmente la cultura della compagnia e assicurarsi che tutti i controlli vengano effettuati per fare in modo che una cosa del genere non si ripeta più». Bastasse questo, caro Bob. Il fatto è che - sembra perfino incredibile doverlo sottolineare, data l’enormità della cosa - gli incidenti possono capitare. Sempre. E non c’è nulla di più efficace contro il pericolo che evitare di fare ciò che è pericoloso. Stiamo affondando i piedi in una cultura tecnologica che ingenera paura e si avvita in una spirale di controlli-su-controlli-su-controlli. Diventeremo sempre più schiavi di un sistema tecnologico ipercomplesso che dovremo per forza tenere di continuo sotto controllo. Questo ci garantisce energia. Ma ci priva della serenità, della spensieratezza e anche del tempo libero. Non è un invito a regredire all’epoca preindustriale, ma uno sprone a non subire le vessazioni della tecnologia per mera inerzia mentale, come se non ci fosse null’altro da fare che assecondarne lo sviluppo. Pensare diversamente si può. Pensare non è rischioso.

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