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Sul terzo memorandum in Grecia: la solidarietà è la nostra arma

di Francesca COIN

Un reportage da Atene, da Pedio tou Aeros, per capire che aria tira in Grecia e per conoscere la lezione di civiltà che la solidarietà greca sta impartendo all’Europa.

[Pubblicato l’11 agosto 2015 su Effimera]

Atene, Grecia.

Una lastra di cemento bagnata dal sole.

Cemento e asfalto, sopra e sotto, file di condomini costruiti durante la dittatura, identici e ossessivi, sempre sole, dentro e fuori i condomini, sempre sole sull’asfalto, sempre sole senz’aria.

Siamo a Pedio tou Areos, oramai da diversi giorni. Pedio tou Areos è un parco nel centro città in cui decine di tende sono diventate casa per centinaia di rifugiati in arrivo dall’Afghanistan e dalla Siria. Ci sono quaranta gradi anche dentro le tende, forse di più, ci sono quaranta gradi nel parco. Ci sono quaranta gradi nei bagni, di quelli di plastica che sanno di formaldeide, sei per cinquecento persone, ci sono quaranta gradi nella tenda per l’assistenza medica, quaranta gradi nei furgoncini che portano il cibo, quaranta gradi e centinaia di persone, anzitutto donne e bambini ma anche uomini giovani, e poi turisti politici come li chiamano, joggers, giornalisti e fotografi, tossici e spacciatori, anziani finiti sulle strade, ex carcerati, accattoni, prostitute e pastori.

I numeri li ha dati in questi giorni l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati: un quarto di milione di profughi sono arrivati in Europa dall’inizio del 2015 e di questi più della metà sono arrivati in Grecia, anzitutto nelle isole di Lesvos, Chios, Kos, Samos e Leros. Un aumento del 750% rispetto allo scorso anno – tale è l’effetto non tanto di un cambio nelle rotte migratorie ma della guerra diffusa in Siria, Afghanistan, Libia e ora Turchia. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite parla di crisi umanitaria e chiede al governo ellenico di porle soluzione.

Evidentemente all’Alto Commissariato sono stati in vacanza negli ultimi cinque anni e nessuno gli ha detto che la Grecia è in bancarotta – la Grecia è stata strangolata e addirittura secondo la testata Ekathimerini nel mese di Agosto sarà in grado di pagare solo il 10% dei beni importati. In Grecia nessuna crisi umanitaria troverà soluzione: laddove il debito si avvita le crisi non finiscono ma proliferano e si moltiplicano come le malattie.

Fatto sta che per venti giorni l’emergenza rifugiati ha trovato un pò di ossigeno a Pedio tou Areos.

Pedio tou Areos

Pedio tou Areos è uno dei parchi più grandi di Atene. Inizialmente progettato nel 1934 in memoria della rivoluzione greca del 1821 contro l’impero ottomano, questo parco enorme grande 23 ettari è stato restaurato nel 2010 come un fiore all’occhiello della meravigliosa capitale ellenica. In poco tempo, però, questo polmone verde nelle strade di Atene è divenuto una specie di luogo d’ombra in cui nascondere tutti quei settori della popolazione obbligati a vivere nelle strade. In Grecia come in Italia si parla di decoro, ma questa parola nobile, decoro, che si rifà a una estetica vittoriana per legittimare la repressione dei più deboli, dimentica quanta violenza è stata esercitata contro tutte quelle forme di fragilità sociale che la crisi ha sbattuto nelle strade.

Così mentre il governo Greco negozia ogni dettaglio di un terzo memorandum che – dicono – riporterà un pò di liquidità alle banche – ricordatevi di dare da mangiare alle banche!, dicono i graffiti di Exarchia – le fasce più deboli della popolazione continuano ad arrivare a Pedio tou Areos, in cerca di un pasto, di una tenda, dell’unica casa a cielo aperto che gli rimane.

L’ingresso a Pedio tou Areos è forse lo spaccato più chiaro della crisi greca. Sotto la statua di Re Costantino I e via via addentrandosi nelle ombre alberate del parco ci sono siringhe e corpi sottili dagli occhi spenti che camminano piano piano tra gli alberi cercando una sospensione, un attimo di tregua, non solo dal caldo ma dalla violenza diffusa degli sguardi e del traffico urbano. Si è già parlato molto negli anni scorsi della strana coincidenza e addirittura della relazione causale tra austerità e diffusione di droghe sintetiche ma di strano non c’è granché.

Charalampos Poulopoulos ex Direttore di Kethea, centro di analisi e riabilitazione sulle dipendenze, ha scritto un paio di anni fa che in un certo senso è come se l’austerità venisse iniettata in via indovenosa perché nel momento in cui la Grecia è stata ridotta al rango di un accattone che elemosina una dose in più dall’Europa come fosse un tossico in crisi di astinenza, metafora che ha usato anche Varoufakis, la popolazione banalmente è stata costretta a fare lo stesso. Smantellata la struttura produttiva, tranciati i salari e decurtate le protezioni sociali settori sempre più ampi della popolazione si sono ritrovati nelle strade a cercare denaro per sopravvivere, stratagemmi per sopravvivere, una stramaledetta fottuta ragione per sopravvivere.

Così la prima volta che siamo entrati nel parco di Pedio tou Areoscercando il luogo in cui i rifugiati erano accampati abbiamo trovato ad incontrarci tutto un altro genere di sofferenza. Io devo ammettere che poche cose mi gelano come la morte – perché di morte si tratta – trovarmi circondata da anime spente costrette a iniettarsi la morte per anestetizzare un tormento più grande mi gela. Perché il punto è questo: alla popolazione greca è stata inflitta una tale tortura che per sopravviverle bisogna placare il tormento di ciò che in noi è vivo e sente.

Così dicono che negli ultimi anni la produzione di droghe sintetiche ad Atene è aumentata esponenzialmente – avevo i dati ma non li trovo più e però non fa molta differenza. Si tratta di sostanze a basso costo che possono essere prodotte a casa o in piccoli laboratori di fortuna in modo abusivo – aprendo a tutta una serie di questioni ulteriori che non è questa la sede di toccare. Così la Shisha, piccoli cristalli bianchi che somigliano al crystal meth – costa due o tre euro e si fuma con una pipetta di vetro ricavata dai bulbi di lampadina e costa a sua volta un euro o due. Poco insomma. Il problema è che questa roba che si dice sia stata somministrata per la prima volta ai militari tedeschi durante la seconda guerra mondiale per indurli a uccidere senza esitazione si produce con una lunga serie di veleni che vanno dal liquido delle batterie sino all’olio del motore, sostanze queste che erodono gli organi interni sino a provocare in chi le fuma o se le inietta crisi nervose e furia, voglia di uccidere e poi totale distruzione. La shisha, si dice da queste parti, è mille volte peggio dell’eroina – di eroina si può campare trent’anni. La shisha ti consuma in un anno e ti butta via.

Non ero mai stata costretta a pensarci, a com’è alta la qualità di vita che ti dà l’eroina.

Entrando a Pedio tou Areos tutta questa soffrerenza ti si appiccica addosso – è difficile ignorarla. Ti si appiccica addosso perché questa capitale aristocratica e elegante, aggraziata di monumenti classici appena restaurati, la stanno torturando. Siamo stati bravi in questi anni a parlare di capitalismo estrattivo. A evidenziare come la finanza globale si nutra di vita estraendo da quella linfa e valore. Quello che non abbiamo detto è che è a tal punto feroce la violenza di questo risucchio che c’è chi per sopravvivere si inietta veleno nel sangue per non sentire.

Fatto sta che il parco di Pedio tou Areos è enorme, come un brulicare di tanti piccoli soggetti dopo tanti altri piccoli soggetti, tutti diversi, e solo cinquanta metri più avanti usciti dall’ombra e da queste voci roche di dolore ecco di nuovo i volti dei bambini sorridere, le mamme che allattano e piccoli gruppi di anarchici e profughi che discutono di future vie di fuga verso la macedonia e poi verso i balcani. Il caldo, fa di nuovo caldo. Il sole, c’è di nuovo il sole. Le tende, ecco le tende e i bimbi che giocano e ti sovrastano di grida. Una parte di me si solleva al pensiero che esistono ancora i bimbi che giocano in questa parte del parco così chiassosa. E un’altra si ritrova ancora sconsolata, oh mio dio, sopravvivenza, un’altra guerra per la sopravvivenza.

Perchè effettivamente tutto questo profluvio di vita non toglie che l’emergenza profughi in Grecia non sia che un altro simbolo della Fortezza Europa: popolazioni eccedenti che arrivano superando guerra e tortura ma per sopravvivere devono ancora fuggire alle carceri e trovare un modo per accedere alla ricchezza privata del capitale occidentale.

Quale futuro abbiamo di fronte?

Così le assemblee nel piccolo parco di fronte allo Steki Metanaston si sono susseguite da metà luglio quando hanno cominciato ad arrivare i primi migranti coinvolgendo centinaia di persone in un intreccio di solidarietà materiale e politica. Ogni giorno dalla mattina alla sera arrivavano decine di persone, viaggiatori di passaggio ad Atene, disoccupati e attivisti delusi di Syriza, migranti di seconda generazione ma anche normali lavoratori e lavoratrici precari/e che dopo una giornata di lavoro in pieno agosto vanno ad aiutare. Sofia per esempio arriva sempre vestita di tutto punto con abito nero corto capelli e trucco ordinati armata di cloro e guanti di lattice per raccogliere siringhe e pulire le latrine. Decine di persone, o forse centinaia, totalmente determinate a rivendicare così un’autonomia non simbolica e a lasciare il governo fuori almeno da questo, che non vengano a fare danni anche qui.

Le ultime settimane sono state così, instancabili. Sarà stata la reazione a quell’accordo del 13 Luglio, al “tradimento”, come lo chiamano qui, di Tsipras; sarà stata la consapevolezza forse lucida o forse terrorizzata che non c’è più vita in Grecia a meno che tutti non mettano in gioco la propria; sarà stato il bisogno di affermare che qualunque minaccia agitiate e qualunque compromesso firmiate nessuno può dominare la volontà ribelle della popolazione greca; sarà stata qualunque di queste ragioni ma le ultime settimane sono state un’esplosione di solidarietà e di auto-organizzazione.

In un certo senso questa è la struttura sociale che tiene insieme la Grecia.

Non è Syriza, per fortuna. Non è la speranza nelle elezioni spagnole, per fortuna. Non è l’euro nè questa stramaledetta idea di Europa. È una fittissima rete di relazioni, realtà auto-organizzate e spazi occupati costituiti da soggetti che mangiano insieme dormono insieme co-spirano insieme e agiscono insieme una visione che va dalle cliniche autogestite all’accoglienza dei migranti, dall’istruzione all’emergenza abitativa. Il problema è che le forme di welfare che si stanno sperimentando in questi spazi sono al limite della sopravvivenza. Qui non c’è welfare. Si tratta di produrre welfare senza avervi accesso – di produrre risposte facendo leva su zero moneta. Una cosa troppo faticosa, mi trovo spesso a pensare, per chiunque, non solo in Grecia, anche in Italia.

Ma evidentemente questi ostacoli non sono ancora un limite.

Mi ricordo che stavo leggendo un articolo che titolava così: “La Germania ha un problema con i rifugiati. Il problema sono i tedeschi”. L’articolo parlava della cittadina di Reichertshofen in cui un gruppo di sconosciuti ha appiccato il fuoco al palazzo in cui verranno ospitati 67 riugiati. Dapprima quel paesino di 830 residenti doveva accoglierne 130, ma dopo le lamentele della popolazione il numero è sceso sino a 67. Leggevo questo articolo e pensavo che in Germania il paese più ricco d’Europa si appicca il fuoco ai palazzi in cui sono ospitati i rifugiati. In Grecia dove non ci sono neanche più lacrime per spegnerlo il fuoco la raccolta di abiti e cibo è stata rapidissima. In pochi giorni l’intero magazzino di sei stanze del piccolo centro sociale in Tsamadou Street debordava di abiti estivi e invernali per uomini donne e bambini e le cucine accanto erano continuamente a lavoro per preparare pranzi e cene. Un andirivieni incessante di centinaia persone si dava il turno per togliere gli abiti dalle sacche piegarli e poi metterli in ordine di taglia e stagione, mentre a un chilometro di distanza altre centinaia di persone brulicavano per servire il cibo o giocare con i bimbi. Questa mobilitazione di centinaia di persone in pieno agosto non era una semplice fiera della solidarietà assistenziale, per capirci. Era una rivendicazione di autonomia dall’anima anarchica, un processo affermativo di resistenza collettiva quasi a rivendicare una distanza rispetto alle decisioni del governo. Lo striscione che domina Tsamadou street dice esattamente questo: “solidarity is our weapon”. Quello che non dice ma è sotteso è che non abbiamo che noi stessi, e non ci avrete mai.

Ecco a me sembra che tutto questo parli profondamente alla fase che stiamo vivendo.

Mentre attendiamo (senza impazienza) di vedere in questi giorni quali compromessi il governo e la Troika hanno raggiunto sulla pelle della popolazione greca, quello che talvolta mi pare non si metta a fuoco è che questo accordo fa precipitare psicologicamente la popolazione greca in un incubo peggiore di quello del 2010. Passi che è agosto; passi che ancora non ci si dà conto di quali tagli verranno imposti alla popolazione; passi che ancora, come ha detto giustamente Seraphim Seferiades, la popolazione sta vivendo una specie di post-traumatic stress disorder, il risveglio dalla fiducia in Syriza sarà impietoso perché questa volta non c’è soluzione né via di scampo. Se negli ultimi anni tutte le energie sono state rivolte alla costruzione di una prospettiva istituzionale capace di sfidare i poteri costituiti e la Troika, ora quella battaglia è persa e non c’è alternativa in vista né via di fuga e questo è quanto.
Allora per capire cosa sta avvenendo in Grecia, io credo, bisogna situarsi qui.

Per capire questo straordinario sforzo organizzativo bisogna sintonizzarsi con il bisogno vitale della popolazione e dei movimenti di non lasciarsi travolgere, deprimere nè contagiare dalla capitolazione del governo. Non è una questione di postura politica, è una questione vitale perché questa volontà affermativa è tutto ciò che tiene la società Greca insieme e lontana dall’implosione. Anche la prospettiva di Grexit va letta in questo contesto. A chi dice che la prospettiva di Grexit è sbagliata, mi vien da rispondere che questo è il modo sbagliato di porre la questione. Il punto non è l’analisi accademica del minore dei due mali. Il punto è l’urgenza di trovare una via di fuga dal carnefice – una strada intentata quando l’altra è un destino certo di sofferenza e sudditanza. Naill Ferguson ha parlato qualche tempo fa di una guerra mondiale finanziaria senza la guerra – è questa la situazione in cui siamo. In questa soluzione non c’è una soluzione ottimale – sono tutte soluzioni pessime, tanto vale cominciare a discuterne con un minimo di concretezza. Nessuna soluzione è ottimale, sono tutte pessime – ma anche all’interno di situazioni pessime c’è vita.

Solidarity is our weapon.

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