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Storia e Antropologia della mafia e dell’Italia

In un libro del 2006, Uomo e Potere (Introduzione all’Antropologia Politica), di Luciano Li Causi, ho trovato i risultati di una ricerca di un antropologo inglese, Anton Blok, che ci svelano la cronistoria dell’origine storica e antropologica della mafia (il paese studiato era Genuardo nella Sicilia occidentale).

Riporto direttamente le sue parole dal testo del 1974 (La mafia di un villaggio siciliano, 1860-1960: imprenditori, contadini, violenti):

“Un elemento importante riguarda il ruolo dei mafiosi come mediatori. Con la penetrazione dello stato e del mercato nell’entroterra siciliano nel corso del 19° e 20° secolo, i mafiosi riuscirono ad esercitare il proprio dominio sulle strade che univano la comunità locale al mondo esterno. Assumendo poi posizioni di supervisione e direzione, essi controllavano i grandi possedimenti dei proprietari terrieri assenteisti [che preferivano godersi la vita in città]. Ciò consentiva loro anche il controllo sui contadini locali che dipendevano dalla terra per la loro sopravvivenza. Le lotte tra mafiosi chiariscono in maniera evidente come in pratica tutti loro controllassero le grandi proprietà come “esattori”… In cambio dell’accesso alla terra, i contadini fornivano periodicamente un appoggio elettorale per i deputati nazionali, la maggior parte dei quali erano proprietari dei possedimenti di cui i mafiosi erano mediatori e supervisori. In tal modo i mafiosi costituivano il legame tra candidato ed elettorato. Questa rete patrono-mediatore-cliente si estese con l’allargarsi dell’elettorato contadino raggiungendo l’apice con l’allargamento al suffragio universale dopo la prima guerra mondiale. Questo cruciale controllo dei mafiosi sul voto contadino era apprezzato dai patroni in città, che li proteggevano contro le richieste della legge e coprivano i loro traffici illegali sotto una coltre d’immunità” (pag. 177).

In realtà, partendo da mediatore, il mafioso è diventato un vero e proprio imprenditore rurale e poi un imprenditore di se stesso, che opera esclusivamente per la salvaguardia e l’incremento dei propri beni e interessi intrecciando rapporti economici e politici al di fuori della comunità locale e della Sicilia.

Con la crisi dell’agricoltura, la terra perde il suo valore di scambio e con i cambiamenti del dopoguerra e la progressiva industrializzazione, entrano in scena i partiti politici. Il posto di lavoro, fisso o temporaneo, oppure la pensione d’invalidità o di vecchiaia, diventano la nuova merce di scambio.

Quindi i mafiosi abbandonano i proprietari terrieri e si rivolgono ai responsabili del partito che è di volta in volta al potere, a livello locale e nazionale. Di conseguenza anche nei partiti nascono alcune figure di intermediari che si relazionano con i mafiosi. Si crea così il clientelismo: l’accesso ai beni dello stato viene scambiato contro voti e pacchetti di voti. Non vi è bisogno di un’ideologia o di “un’etica” che giustifichino lo scambio. Non sono necessari i linguaggi “dell’onore o dell’amicizia”: ciò che si dà o si riceve fa parte di una contrattazione che unisce la politica all’economia.

Moltissimi responsabili politici dei vari partiti hanno poi appreso i metodi e le tecniche mafiose più adattabili al loro contesto (regalie di pensioni e posti di lavoro, ricatti, collusioni, corruzioni, ecc.) e le hanno esportate in tutt’Italia e in tutti i settori (sanità , istruzione, giustizia, ecc.). Si sono viste delle nuove specie di “mafia” di destra, di sinistra e di centro… Si è vista la mafiosità italiana e l’italianità mafiosa…

I risultati finali li vediamo oggi… E se finora si è arrivati a commissariare solo aziende pubbliche, società private e comuni, secondo me si arriverà presto a commissariare anche Provincie e Regioni… E forse accadrà pure l’impensabile: l’azzeramento di Istituzioni Statali e Governative da parte di un’Istituzione Europea…

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