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Sono più corte le gonne o le vedute di certi uomini?

L’Uganda si schiera a difesa della pubblica moralità e contro la pornografia. E prende di mira anche le minigonne. Da diversi mesi si parla del cosiddetto anti-pornography bill, detto anche ironicamente anti-miniskirt bill, che nelle intenzioni dei legislatori dovrebbe contenere la diffusione della pornografia e della prostituzione. E che punta a penalizzare qualsiasi condotta “erotica” che causi “eccitazione sessuale, atti indecenti o comportamento volto a corrompere la morale”. Da qui alla limitazione della libertà personale e dei diritti, anche nella scelta del vestiario come nel caso delle minigonne, il passo è breve.

A sostenere l’approvazione della norma, chiedendone anche l’inasprimento, è l’Uganda Joint Christian Council, che ha partecipato alle udienze della commissione parlamentare che sta scrivendo la legge. Gli stessi evangelici che nello stesso paese sostengono la “kill the gays bill”, un progetto di legge in discussione che prevede pene pesantissime per gli omosessuali, compresa in alcuni casi la pena di morte. Questi gruppi cristiani hanno contatti con esponenti evangelici statunitensi proprio per fomentare l’omofobia, come denuncia il recente documentario God Loves Uganda.

Anche nei paesi occidentali, usando come argomento la tutela della dignità della donna, si inizia a colpire la pornografia (come si è discusso in Islanda). E perfino a censurare l’abbigliamento succinto. È vero che la donna viene spesso presentata dai mass media sulla base di modelli stereotipati e limitanti che danno netta prevalenza all’immagine estetica e la riducono a un oggetto, anche a fini commerciali e pubblicitari. Ma si rischia di cadere nell’estremo opposto se si presume che mostrare la bellezza sia segno di mera superficialità senza sostanza, e che la difesa della dignità femminile passi necessariamente per la morigeratezza. Non sono posizioni sostenute solo da ambienti patriarcali e maschilisti: se ne dibatte anche tra le donne e si arriva talvolta a posizioni paradossali. Come accantonare proprio le conquiste dei decenni scorsi sul fronte dell’emancipazione (che comportano anche la facoltà di vestirsi liberamente) per rivalutare comportamenti e costumi castigati, quelli che trovavano una giustificazione nelle tradizioni religiose e di controllo sociale della donna.

In alcuni comuni italiani sono state emanate ordinanze, concepite contro la prostituzione in strada, che rischiano però di agire come norme comportamentali da applicare a tutte le donne che vogliano indossare abiti scollati o gonne troppo corte. Recenti sono i casi di Paderno Dugnano (Mb), di Partinico (Pa), Porto Sant’Elpidio, Fermo e Porto San Giorgio (Fm). I provvedimenti italiani, nei quali si intuisce una punta di moralismo imposto a livello istituzionale, trasmettono implicitamente l’idea che chi si veste in un certo modo si mostra come una prostituta, e che ciò sia tanto riprovevole da proibirlo.

Nell’intento di limitare la prostituzione si finisce per colpire le donne piuttosto che i clienti. Volutamente? Chissà se qualcuno vuol tornare a dividere le donne in “sante e puttane”, come accadeva negli anni Sessanta contro le femministe. I diritti non cadono dal cielo: c’è ancora molto da fare, purtroppo, anche tornare a battersi per conquiste che sembravano acquisite. Senza mai dimenticare che, nel mondo, la libertà delle donne è direttamente proporzionale alla laicità delle istituzioni del paese in cui vivono.

 

 

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