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Smaterializziamo i prof? Su scuola, registro elettronico e virtualità

In una scuola sempre più digitale, dove per essere più efficienti e trasparenti si vuole eliminare anche il vecchio e personale registro cartaceo, sostituendolo con uno elettronico, il vero rischio è che tutto diventi virtuale. In questo articolo si cerca di mettere in luce gli aspetti più preoccupanti del fenomeno, tra cui la banalizzazione e standardizzazione dell'insegnamento e la de-materializzazione degli stessi rapporti umani, sia tra docenti ed allievi, sia tra questi ultimi ed i loro genitori.

Quando si sentiva parlare di smaterializzazione”, almeno fino a poco tempo fa, l’associazione mentale immediata era con quei film di fantascienza nei quali alieni ripugnanti usavano la pistola spaziale per disintegrare i malcapitati terrestri che gli venivano a tiro. Di “materializzazione” e “smaterializzazione” si parla anche nei romanzi e film su Harry Potter ed il suo Wizarding World, ma fin qui, tutto sommato, ci poteva ancora andare bene.

Il guaio è che ne hanno cominciato a parlare anche quei signori che ci governano e, soprattutto, lo hanno fatto con la supponenza che nasce dal pericoloso mix di arroganza – tipica di chi decide dall’alto – e d’ignoranza della materia su cui si pretende di decidere per tutti. La smaterializzazione di cui da qualche tempo si stanno occupando (loro preferiscono chiamarla “dematerializzazione”) rientra nel discorso generale della c.d. “semplificazione” delle procedure burocratiche. In realtà è solo un altro mantra del politichese, che dovrebbe suonare come sinonimo di efficienza e facilità di accesso ai dati, ma che spesso si è rivelato una fregatura per gli utenti dei servizi pubblici, spiazzati da procedure sconosciute e da tecnologie informatiche ancora poco generalizzabili, soprattutto in una società sempre più anziana.

Sono reduce da un incontro pomeridiano presso la mia scuola, dove un’ottantina d’insegnanti sono stati stivati in un’aula (suddividendoli in due turni, proprio a causa di problemi di connessione alla Rete nell’aula magna…) per seguire un corso accelerato di conoscenza e gestione del c.d. “registro elettronico”. Trattasi dell’ultima trovata del MIUR che, rifacendosi ad una poco chiara normativa di ordine finanziario relativa alla spending review, ha deciso di eliminare i registri cartacei entro il prossimo anno scolastico, sostituendoli con una procedura informatizzata. Certo, a prima vista potrebbe sembrare una saggia decisione, una soluzione pratica e funzionale, finalizzata ad una maggiore trasparenza e funzionalità delle istituzioni scolastiche. Del resto - fossero convinti o no - a tale diktat (supportato, a quanto pare, solo dalla circolare ministeriale n° 1682 del 3 ottobre 2012) la maggioranza dei collegi dei docenti sembra essersi uniformata senza “se” e senza “ma”, con la supina e impotente rassegnazione di chi è abituato ad “attaccare il ciuccio dove vuole il padrone”.

Eppure è bastata una sola sessione di “formazione” al nuovo miracoloso strumento elettronico per offuscare non solo l’entusiasmo di chi pensava di essere finalmente entrato nell’universo della scuola moderna, ma anche l’incredibile capacità di adattamento del vecchio docente, assuefatto ad incredibili cambiamenti di rotta e, come i carabinieri, “uso a obbedir tacendo e tacendo morir”.

Personalmente, pur impiegando da molto tempo le tecnologie più moderne nel mio lavoro d’insegnante (dalla lavagna interattiva multimediale ad un mio sito web scolastico interattivo), io non mi ritrovo né nella categoria degli entusiasti delle novità “a prescindere” (direbbe Totò), né tanto meno in quella di chi si lascia trascinare passivamente dalla corrente, senza osservazioni e senza resistenza, quando è il caso. Non sono quindi né favorevole né contrario per principio al processo d’informatizzazione dell’insegnamento – che presenta spesso innegabili vantaggi – ma non sono neanche disposto a considerare ogni innovazione come un ovvio miglioramento, soprattutto se, anziché semplificare la didattica, la banalizza e la standardizza.

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registro elettronico
 

Ho letto su “la Repubblica” un ottimo contributo su questo delicato tema, a firma di Mariapia Veladiano. La scrittrice e giornalista – insegnante per vent’anni ed attualmente preside – nel suo articolo “Perché il registro elettronico è un’illusione educativa, affronta con acume e con la giusta ironia un’innovazione che non può essere ridotta ad una falsa scelta fra efficienza e burocrazia nel mondo della scuola, ma richiede maggior spirito critico sulle conseguenze più profonde sul modo di fare scuola e di far interagire docenti, alunni e genitori.

“La domanda non è se funziona o non funziona. Alla fine certo che sì. Dopo aver trovato le risorse per acquistare o affittare i notebook per tutte le aule di tutte le scuole del regno e per pagare i contratti alle aziende incaricate di risolvere i pluriquotidiani problemi tecnici e di garantire assistenza continua, dopo aver formato tutti gli insegnanti, governato le rivolte per lo stress iniziale da voti scomparsi e da password smarrita, blindato il sistema contro allievi-piccoli-hackerinformatici, alla fine funziona…” . osserva, pungente, la scrittrice-preside.

Lei, infatti, conosce troppo bene la realtà della nostra scuola per non prefigurarsi le mille disfunzioni di un sistema dove si pretenderebbe di sostituire i vecchi registri “cartacei” con moderni notebook e tablet, ma dove le poche cose finora dematerializzate sono gli statini paga degli insegnanti e la carta igienica nei bagni… Ma l’aspetto più importante che la Veladiano coglie di quest’ennesima novità piovuta sulla scuola italiana è la sua capacità di disintegrare i rapporti umani al suo interno, sostituendo la relazione diretta docenti-alunni e genitori-docenti con istantanei ed anodini report sulla posta elettronica o sulla messaggeria telefonica.

“Dove il registro elettronico c’è da un po’, capita che i genitori non si facciano più vedere ai colloqui con i docenti o alle riunioni della Consulta, basta il voto letto sul video, la media la sanno fare da sé. Come se la valutazione fosse cosa di numeri: niente storia di una conquista da raccontare e condividere, niente alleanza educativa da concordare. La scuola in numeri: quattro-cinque-sei. Oppure i genitori a scuola ci vanno, ma vanno a fine quadrimestre e a fine anno, a contestare il voto in pagella, perché non rispetta la media dei voti monitorata per mesi online. Come se il processo di apprendimento e crescita potesse diventare un numero appunto.”

In realtà, più che una scuola aperta e disponibile“online”, si direbbe che chi ci governa voglia una scuola “allineata”, dove le procedure didattiche – e non solo quelle burocratiche – diventino sempre più standardizzate e verificabili. E questo non per una migliore trasparenza dell’istituzione in sé, quanto per attivare meccanismi selettivi, di tipo competitivo-produttivistico.

Però trasformare il dialogo educativo in un’informazione che aggiorni solo su voti ed assenze, a mio giudizio, è un peccato ancor più grave perfino di quello di mandare perfidamente allo sbaraglio insegnanti ultrasessantenni, costringendoli a gestire in diretta le loro classi da una tastiera, di fronte a centinaia di smaliziati “nativi informatici” che hanno quasi mezzo secolo meno di loro.

Giustamente, l’articolo della Veladiano sottolinea che queste procedure rischiano di avvalorare un “vuoto tremendo”, un vuoto soprattutto di fiducia, che nasce dal non doversi più guardare in faccia nel dirsi le cose, tanto ormai c’è il computer che fa la spia ai genitori e toglie loro anche il disturbo e l’imbarazzo di sentirsi raccontare dagli insegnanti come vanno i loro beneamati figlioli.

Credo che abbia profondamente ragione quando scrive che “…Più avanza il possibile della tecnologia, più bisogna custodire la materialità delle relazioni. La relazione educativa è incontro. Incontrarsi è un argine all’idea che tutto possa esaurirsi nella virtualità di un rapporto online”. Il vero pericolo, anche secondo me, non è che larga parte dei docenti saranno prevedibilmente colti da crisi di panico o attacchi isterici di fronte a password che non fanno passare o registrazioni di dati che si rivelino poi non ben salvati o hackerati da frotte di ragazzini smanettoni. Il rischio, più grave e concreto, è che si assesti un’altra mazzata alla relazione educativa, già messa alla prova dall’invalsizzazione degli apprendimenti e dalla tendenza a trasformare i docenti in anonimi operatori scolastici etero-diretti, la cui autonomia si è ridotta quasi soltanto alla scelta dei giorni di recupero delle festività soppresse.

Il rapporto insegnanti-alunni è qualcosa di molto più spirituale e al tempo stesso più materiale di una valutazione numerica degli apprendimenti e delle competenze. È fatto di sguardi, silenzi, talvolta di urli e sfuriate, ma molto spesso di sorrisi e liberatorie risate collettive. Qualcosa, insomma, che non si poteva racchiudere e sintetizzare con dei numerini scritti sulle pagine quadrettate dei registri cartacei, ma che tanto meno può essere trasmesso online, digitando voti, assenze ed assegni su un computerino, magari in diretta, alla fine di una vivace lezione.

Le programmazioni didattico-educative – già da tempo orientate verso una standardizzazione dei contenuti e dei tempi di svolgimento – rischiano di diventare sempre più quel comodo “copia e incolla” che il formatore suggeriva blandamente al suo uditorio di terrorizzati docenti da formare. Sostituire la libertà d’insegnamento, la fantasia progettuale del singolo docente ed il rispetto dei tempi della classe e dei suoi componenti con procedure “copia-e-incolla” mi sembra un rischio abbastanza evidente. Sopprimere il confronto e la discussione collettiva dei consigli di classe con procedure banalmente aritmetiche e statistiche, come spesso già succede in sede di scrutini intermedi e finali, è un altro rischio di banalizzazione ed uniformità pseudo-scientifica della scuola delle crocette sui quiz e delle lezioni precotte proiettate sulle lavagne “interattive”. Tutto ciò, naturalmente, sperando che i computer di classe siano nel frattempo stati forniti, che la connessione ci sia e che la presentazione audiovisiva non disturbi troppo gli alunni, impegnati magari a fare disegnini sui diari oppure a smanettare, veloci e furtivi, sui loro smartphone

La verità è che non abbiamo bisogno di una scuola più “virtuale” bensì più “virtuosa. Una scuola capace di educare i ragazzi/e ai valori, al senso del limite, alla libertà “di” piuttosto che alla libertà “da”. Non sarà certamente quello che la Veladiano chiama il “computer che denuncia” che semplificherà e renderà più trasparenti le relazioni all’interno della scuola. Se perderemo anche la capacità di guardarci negli occhi e di affrontare direttamente i problemi che essa inevitabilmente produce, non illudiamoci che spariranno anche i conflitti e che le cose andranno meglio. Saranno solo riusciti a smaterializzare gli insegnanti, sostituendoli con la scuola robotizzata di alcuni racconti di fantascienza.

Non dimentichiamo, però, che in quei racconti perfino i robot, qualche volta, si ribellano. Forse è meglio che noi lo facciamo adesso, prima che sia troppo tardi.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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