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Siamo sicuri che la delocalizzazione sia conveniente?

C’è una questione strettamente connessa al problema del rilancio della economia reale in occidente: quella della cd “fabbrica globale” per cui i paraurti sono prodotti da uno stabilimento di San Paulo do Brazil, la scocca da un altro stabilimento a Seul, il motore in un terzo stabilimento a Toronto, i tergicristalli e gli accessori sono acquistati da una azienda esterna con sede a Singapore e tutto viene montato in una città europea. E tutto questo perché in questo modo si abbatterebbero i costi di produzione. 

Ragioniamo sul fondamento dell’affermazione per cui questo sistema costerebbe meno di quello per cui l’azienda esegue in un unico stabilimento il ciclo integrale (come è stato sino agli anni ottanta).

A rendere più economico il tutto sarebbe il minor costo della forza lavoro, del terreno per gli impianti e, talvolta, dell’energia.

Abbiamo già detto altre volte quale sia il peso che su tutto questo ha il mercato sfasato dei cambi, riaggiustando i quali, buona parte di quella convenienza sparirebbe. A questo aggiungiamo i costi di trasporto (che sappiamo destinati a crescere). Ma ci sono anche altri tipi di “costo” che vanno esaminati. In primo luogo, la fabbrica globale porta con sé una crescente dequalificazione dei lavoratori, sempre più ridotti ad “appendice” della macchina. L’adozione di cicli produttivi fortemente robotizzati ha indotto a pensare che l’attività del lavoratore debba ridursi a “servire” la macchina, quel che non esige particolari livello di qualificazione, per cui si pensa che la produzione possa essere liberamente spostata da uno stabilimento all’altro, senza che questo imponga costi di formazione del nuovo personale. In buona parte, si tratta di un ragionamento fondato, ma non è detto che questo produca solo effetti desiderabili, anche al di sotto di una certa soglia. In particolare, la dequalificazione di alcune mansioni esecutive ha fatto crescere la domanda di professionalità in altre fasi del processo prodotte proprio dall’adozione di questo modello di organizzazione del lavoro: ad esempio funzioni di coordinamento, di manutenzione degli impianti, di problem solving, di collaudo ecc.

Dunque, questa soluzione, più che eliminare ha spostato i termini del problema e l’eventuale trasferimento di una lavorazione da uno stabilimento all’altro, ha dei costi, spesso sottovalutati, in termini di perdita di professionalità di interi gruppi di lavoratori.

Ancora: la produzione in stabilimenti dello stesso gruppo multinazionale non comporta spostamento di denaro, ma l’acquisto di parte dei componenti da aziende esterne si e, come abbiamo detto, ciò ha sempre un costo. Peraltro la frammentazione in più stabilimenti fortemente decentrati, comporta un maggiore sforzo di coordinamento ed amministrazione, un più alto numero di responsabili di stabilimento, ecc, quel che significa più personale da impiegare e, dunque, più costi.

Peraltro, ci sono anche costi “occulti” (ad esempio la tangente al politico locale, maggiore probabilità di sprecare materie prime e di subire furti in azienda, rischi sociali in particolari paesi, ad esempio negli anni novanta molto imprenditori pugliesi spostarono le loro lavorazioni in Albania dove, nel 1999 ci fu una forte crisi sociale durante la quale molti di quegli stabilimenti finirono distrutti).

Infine, questa scelta potrebbe rivelarsi perdente in un periodo successivo perché questo modello favorisce grandemente la standardizzazione dei singoli componenti, il che (come aveva intuito proprio Ghidella) porta ad una “perdita di personalità del prodotto”. Risultato finale: un’offerta fortemente appiattita, con scarsa competizione di qualità e prestazioni. Quello che, ovviamente, ha il suo rovescio nella produzione di lusso che, invece, mantiene una più spiccata diversificazione di prodotto. Ideale per un modello di società dicotomica in cui il low cost è il fragile paravento della distruzione del ceto medio. Ma che potrebbe andare incontro a comportamenti di mercato imprevisto: ad esempio, i marchi che dovessero insistere su questa linea potrebbero trovarsi disarmati, di fronte alla concorrenza di una azienda che puntasse su prodotti molto diversificati e “personalizzati”, ispirati alla filosofia d’impresa sloanista.

Come si vede, la “fabbrica globale” non è quella panacea che molti descrivono. Ed, anzi, appare come una scelta molto miope.

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