“Sia fatta la mia volontà”: intervista a Marina Sozzi
Marina Sozzi è filosofa e studiosa di scienze sociali. Ha lavorato nel non profit occupandosi del tema della morte e dell’aiuto al lutto e della raccolta fondi. Scrive un blog per Il Fatto Quotidiano. Il suo ultimo libro è Sia fatta la mia volontà. Ripensare la morte per cambiare la vita, edito da Chiarelettere.
Lei si dice “convinta che un mutato atteggiamento nei confronti della mortalità sia un ingrediente irrinunciabile per la costruzione di un futuro migliore”. E che “la morale laica non può che fondarsi sulla consapevolezza reciproca” della rispettiva vulnerabilità: “solo se ci sentiamo mortali possiamo essere sensibili al destino umano”. Veniamo da molti secoli in cui la morte era continuamente evocata a fini morali, e da pochi decenni in cui l’argomento sembra quasi divenuto tabù. Com’è possibile cambiare nuovamente — e radicalmente — paradigma?
Come tutti i mutamenti di “mentalità”, non possiamo attenderci che sia rapido. Tuttavia, nell’atteggiamento novecentesco di negazione della morte si nasconde un grave problema: la sofferenza che coglie chi si trova inaspettatamente di fronte alla perdita. In questo caso la morale non c’entra, è una questione di efficacia. Tutte le società hanno sempre avuto strategie per reagire alla ferita inferta dalla morte: la strategia del XX secolo, volta all’oblio e alla dilazione, è perdente perché inefficace. Non abbiamo forse mai avuto così paura della morte.
Uno degli aspetti della funzione “vitale” della morte che sottolinea con più vigore è lo sprone a trovare piacere in ogni attimo della propria esistenza. Scrive che “il godimento dell’istante, il famoso carpe diem, che è la ricetta principale della felicità, non esiste senza la consapevolezza della mortalità”. E ricorda che già Petronio narrava dello scheletro che veniva portato a tavola durante i banchetti, per invitare i convitati “a coltivare ancora più intensamente l’appagamento del momento presente”. Non teme di esporsi ad accuse di edonismo fine a se stesso, di egoismo, di promuovere una società “che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”, per usare le parole di Joseph Ratzinger?
Al contrario. Coltivare l’esperienza del presente, lo “stare nel presente” è tutto fuorché edonista. L’edonismo è rincorsa del piacere, individualità concentrata nella realizzazione dei propri desideri: fuga in avanti, appunto, non profondità del sentire. Il buddismo, ad esempio, ha una grande saggezza su questo tema: fonda tutta la sua filosofia sul raggiungimento della consapevolezza piena del qui e ora, e lo fa sulla base dell’avvertire che tutto è transeunte, impermanente. Rifacendomi non tanto al buddismo, quanto a una filosofa femminista americana, Judith Butler, anch’io penso che l’etica laica non possa che basarsi sulla consapevolezza della nostra umana e condivisa vulnerabilità. Se non ci fermiamo nel presente, però, non possiamo sentirla. La neghiamo, ci illudiamo di essere immortali e onnipotenti, e emarginiamo chi ce la ricorda: gli stranieri, i poveri, i vecchi, i malati, i morenti.
Lei ha un’approfondita conoscenza delle cerimonie laiche. Sull’argomento scrive che “forse dobbiamo solo creare dei riti adatti al nostro tempo, alle nostre priorità, a ciò che riteniamo importante”, perché “pensare al rito può aiutarci a ritrovare i valori per cui siamo disposti a vivere”. Ciononostante, questo è un argomento che incontra forti resistenze sia dalle confessioni religiose, sia in ambienti laici. Eppure, “basta poco perché la situazione cambi”, e anche le sale mortuarie diventino un luogo dignitoso dove ricordare un defunto. Come vede il futuro, in Italia, dei riti laici?
Io in realtà non ho mai celebrato una cerimonia, ma ne ho inventata una. Un contenitore, appunto, uno spazio-tempo rituale (sempre uguale), il cui contenuto varia, perché ciascuno può parlare di chi non c’è più ma ci ha lasciato eredità d’affetti e di pensieri, di emozioni e di momenti condivisi. I riti laici diverranno, lentamente, un’esigenza ovunque riconosciuta anche in Italia. Non so, naturalmente, se quelli che prevarranno e diventeranno tradizione saranno simili alla cerimonia che ho pensato io (sulla scorta di quelle celebrate nel nord Europa) o diversi: ma questo non ha alcuna importanza.
La soddisfazione di un’esigenza di personalizzazione, che è propria del rito laico, trova conferma, a suo dire, anche nei cimiteri, nel numero crescente di tombe che “parlano” del morto. È un effetto della secolarizzazione che, tuttavia, si può ricollegare direttamente alle iscrizioni funebri romane. È un caso, oppure un’insopprimibile esigenza umana che quasi due millenni di cristianesimo avevano messo in sordina?
Più che di un’esigenza “umana”, nel senso di “universale”, parlerei di una necessità culturale: la nostra società dà molto valore all’individuo e a quello che ha realizzato in terra, indipendentemente dalla credenza o meno in un mondo superno. Da questa visione della persona discende il desiderio di ricordarne le azioni, le passioni, i sentimenti.
Già nel titolo, e ovviamente anche nel libro, afferma in maniera netta il primato della libertà di scelta. È tuttavia molto prudente su un’eventuale legalizzazione dell’eutanasia, ricordando il ritardo del nostro paese nell’assicurare cure palliative ed evidenziando il rischio che le scelte individuali possano essere condizionate da troppo entusiastiche suggestioni nei confronti della dolce morte e del suicidio. Come si possono salvaguardare le diverse esigenze, in un paese peraltro ancora largamente condizionato dalla cultura dolorista?
Procedendo per gradi. Lavorando con pazienza, e insieme (laici e cattolici) per la diffusione della filosofia palliativa e per l’applicazione piena della legge 38 del 2010 sulle cure palliative. Aprendo un dibattito pubblico non viziato da ideologia, e ricco di informazione, che si astenga da strumentalizzazioni politiche. Ragionando al contempo su cure palliative e eutanasia, senza dimenticare il contesto culturale in cui riflettiamo e agiamo. Esaminando, per ora, caso per caso.
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