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Sentenza di Brescia e giustizia in Italia: ne vogliamo parlare?

Ce lo aspettavamo: assoluzione per tutti. Leggeremo le motivazioni, ma già temiamo di sapere quel che leggeremo (anche se, in primo grado, il collegio giudicante ci riservò la sorpresa di un testo peggiore delle aspettative, già molto basse). Ma restiamo ugualmente in attesa non pregiudiziale.

Quando arriveranno le motivazioni, potremo capire perché, quello che a noi appariva come un convincente quadro indiziario grave, univoco e convergente (sufficiente a condannare a norma del cpp), non è apparso tale al collegio giudicante ed, eventualmente, formuleremo le nostre obiezioni oppure riconosceremo le ragioni di chi ha assolto. Prima ancora che garantisti, siamo laici ed, in quanto tali, riconosciamo che un giudizio corretto lo si può formulare solo dopo aver ascoltato senza pregiudizi le ragioni altrui, per cui, pur conoscendo bene il fascicolo processuale ed essendo convinti, per ora, di certe cose, attendiamo il ragionamento della corte per verificare le nostre convinzioni. Ma, quale che sia l’esito di questo specifico caso, resta un problema: come mai, sistematicamente, i processi per strage si concludono con sentenze assolutorie e non si riesce mai a trovare i colpevoli?

Sin qui il “bottino della giustizia” in materia di stragi si riduce ad un reo confesso (Vinciguerra, ma è inesatto considerare Peteano una strage, trattandosi di un attentato mirato e non indiscriminato), un arrestato in flagranza di reato (Bertoli) ed un paio di condannati per la strage di Bologna. Un po’ pochino, soprattutto dove si consideri che la sentenza per Bologna è molto discussa e, comunque, individua due soli responsabili di un evento che non può non aver avuto molti altri corresponsabili. Negli altri casi zero al quoto.

Può anche darsi che gli imputati siano colpevoli ma le prove a loro carico siano insufficienti, oppure può darsi che gli imputati siano sempre innocenti, resta il problema che le stragi qualcuno le avrà anche fatte e che lo Stato non è capace di trovare il responsabile. Dunque, se gli assolti (a torto o a ragione poco importa, a questo punto) escono dalla gabbia degli imputati, dentro ci entra lo Stato con i suoi apparati (di sicurezza, di polizia ed anche giudiziari) quantomeno per la sua incapacità. La magistratura, sin qui, si è chiamata fuori ponendosi solo come l’ultimo arrivato che mangia il piatto preparato da altri. C’è un curioso scaricabarile: i collegi giudicanti scaricano tutto sugli organi inquirenti che non hanno saputo fare l’inchiesta come avrebbero dovuto, per cui sono “costretti” ad assolvere perché l’accusa non ha saputo fornire le prove necessarie.

Le Procure dicono che è il giudicante che non ha letto il fascicolo con sufficiente attenzione o imparzialità e, talvolta, se la prendono con gli organi di polizia - più spesso passati che presenti - per i depistaggi, gli errori, le collusioni ecc; gli organi di polizia accusano i servizi segreti di aver depistato, coperto, colluso; i servizi segreti dicono di aver fatto il loro dovere ma nel passato recente e di non rispondere per quelli che erano al loro posto trenta anni fa e che, invece… E tutti sono bravissimi ad invocare le eccezionali difficoltà di questo tipo di casi: complessità, lontananza nel tempo, ampiezza dello spettro di indagine, timore dei testimoni, difficoltà di far entrare casi così smisurati nella cornice processuale ordinaria pensata per casi ben più semplici, ecc..

Effettivamente le difficoltà oggettive ci sono: ad esempio, pretendere che i collegi giudicanti si leggano fascicoli di 1 milione di pagine o anche più, in qualche mese di tempo e che digeriscano il tutto è pretesa non da poco, poi fare un giudizio 30 anni dopo il fatto non è uno scherzo. Ma se eccezionali sono le difficoltà, eccezionale è anche la gravità di questi casi che esigono, appunto, un impegno speciale dello Stato. E di questo impegno speciale non si è vista traccia, anzi, l’impressione è che si sia fatto molto di meno dell’ordinario.

In ogni caso, occorrerà entrare nel merito per stabilire le responsabilità di ogni singolo pezzo dello Stato: servizi segreti, polizia giudiziaria, magistratura inquirente e giudicante. Sin qui si è molto parlato delle responsabilità di polizia e servizi segreti, le cui responsabilità sono ormai cosa acquisita, tanto in sede storica quanto in sede giudiziale. Sembra un'ironia: mancano i responsabili delle stragi, ma ci sono i responsabili dei depistaggi con tanto di sentenze passate in giudicato che condannano carabinieri, poliziotti ed agenti dei servizi. Questo però vale per il passato più che per il presente: avendo partecipato per quasi 15 anni alle inchieste per le stragi di Piazza Fontana, via Fatebenefratelli, Brescia e casi minori, posso testimoniare che il comportamento degli organi di polizia giudiziaria è stato, nella grande maggioranza dei casi, assolutamente impeccabile sia in termini di lealtà che di professionalità.

Per i servizi segreti il discorso è un po’ diverso: non che nel passato recente ci siano stati clamorosi depistaggi o sottrazione di prove, ma qualche volta si è avvertita una certa ritrosia a collaborare. Diciamo così: non hanno avuto fretta di dare quel che era in loro possesso e che poteva essere utile alle indagini. Comunque di servizi segreti e polizia si è abbondantemente parlato e non staremo qui a ridire.

Molto meno si è detto della magistratura e di questo conviene parlare.
Ci sono state 5 istruttorie per Piazza fontana, 2 per Fatebenefratelli, 3 per Brescia, 2 per Gioia Tauro, 1 per l’Italicus ed 1 per Bologna, senza considerare quella per Savona mai approdata in aula. Un totale di 14 procedimenti, quasi tutti falliti. Delle due l’una: o gli inquirenti sono degli incapaci totali che non hanno mai imbroccato la via giusta, o qualcosa non va nella formazione del giudicato.

La magistratura inquirente presenta un bilancio un po’ contraddittorio che varia da caso a caso: meno brillante nel passato che nel presente, non è andata esente da trascuratezze, errori ed insufficienze (anche di recente) ma, nel complesso, le ultime inchieste hanno riscattato molte inerzie passate. Alcune di queste inchieste (Grassi-Mancuso per depistaggi Bologna bis e Italicus, Salvini-Piazza Fontana e Fatebenefratelli, Brescia) hanno prodotto una mole di materiale documentario e testimoniale assolutamente imponente, per molte centinaia di migliaia di pagine e, pur senza cogliere il risultato della sentenza, hanno ottenuto (Brescia a parte) significativi riconoscimenti anche nelle motivazioni di sentenza. In ogni caso forniscono un materiale storico di straordinario interesse ed è già qualcosa. Sul valore probatorio delle risultanze di queste inchieste occorrerebbe una analisi caso per caso che qui non abbiamo la possibilità di fare.

E veniamo al punto dolente di cui non si è mai parlato: la magistratura giudicante verso la quale ci sono occasionali ondate di indignazione in occasione delle sistematiche assoluzioni, ma che, in assenza di un esame di merito, si risolvono in una sterile deprecazione priva di conseguenze effettive: è colpa delle stelle che ci sono state sfavorevoli.

Anche per la giudicante non abbiamo lo spazio necessario per passare in rassegna le singole sentenze (ma, magari, un po’ alla volta lo faremo), qui ci limitiamo ad osservare alcune linee generali, considerando come casi di strage: piazza Fontana, Gioia Tauro, Fatebenefratelli, Brescia, Italicus, Savona, Bologna. Non consideriamo né i casi per così dire “remoti” (Portella e quelli di banditismo siciliano o Malga sasso e quelli legati al terrorismo altoatesino) né quelli più “recenti” (904, Capaci, via D’Amelio, Gergofili, via Palestro, ecc.). Questo perché il gruppo “centrale” presenta caratteristiche comuni e punti di contatto reciproci, mentre i casi “remoti” e quelli “recenti” appaiono meno omogenei fra loro ed assai diversi da quelli del gruppo considerato. Non abbiamo incluso Peteano in quanto, come già abbiamo detto, non è corretto considerarlo come un caso di strage, mancando il carattere indiscriminato che è caratteristico delle stragi, essendo piuttosto un attentato “mirato” contro i carabinieri, dunque più inquadrabile nella fattispecie penale dell’omicidio plurimo. I casi indicati hanno queste costanti:

a - gli indiziati giunti a dibattimento sono sempre stati militanti di organizzazioni estrema destra (Avanguardia Nazionale per Gioia Tauro e Piazza Fontana, Nuclei Armati Rivoluzionari per Bologna, Ordine Nuovo per P. Fontana, Fatebenefratelli, Brescia, Italcus). Eccezioni: piazza Fontana, dove a giudizio furono rinviati anche anarchici (poi assolti) insieme a quelli di On e la prima istruttoria per Gioia Tauro che vide imputati 4 dipendenti delle Ffss anche essi assolti.

b - in tutti i casi (salvo Savona) sono risultati implicati uomini dei servizi segreti o dei corpi di polizia o come correi o favoreggiatori, o per successivi depistaggi.

Infine - per avere un parametro che dia la misura del successo delle inchieste, abbiamo attribuito un punteggio convenzionale di tre ogni caso, per cui 3 indica la piena individuazione dei potenziali responsabili (mandanti, organizzatori, esecutori) e 2 o 1 un risultato parziale che individui solo uno o due dei diversi “livelli”.
Fatta questa premessa osserviamo che in 5 dei 7 casi considerati, non si è giunti all’identificazione dei responsabili, mentre negli altri 2 l’identificazione è stata solo parziale, riguardando gli esecutori (ma nel caso bolognese l’effettivo ruolo di Mambro e Fioravanti non risulta del tutto chiaro) mentre sono restati in ombra mandanti ed organizzatori. Per cui abbiamo un “indice di successo” di 2 su 21 (cioè un indice inferiore ad un decimo).

Per avere un indice più particolareggiato, consideriamo il numero degli imputati delle varie inchieste che assommano a 61 (alcuni sono stati imputati in più procedimenti) e di essi risultano condannati tre, quindi meno di 1 su 20. La media nazionale dice che i condannati definitivi nei processi penali sono il 17%, cioè, 1,7 su 10 contro lo 0,5% dei casi di strage. Se poi consideriamo i casi più gravi (mafia e terrorismo di sinistra) la percentuale dei condannati definitivi oscilla fra il 28 ed il 36%, cioè fra le 5 e le 7 volte in più dei processi di strage. Una disparità statistica che, di per sé appare molto inquietante e da spiegare.

In secondo luogo osserviamo come in primo grado, spesso ci sono state condanne che poi sono cadute in appello o in Cassazione, che si è rivelata il giudice meno favorevole alle tesi d’accusa e più comprensivo verso quelle di difesa. In particolare colpiscono alcune differenze fra alcuni casi, ad esempio in termini di credibilità del collaboratore di giustizia. La Corte di Cassazione ha ritenuto, nella sentenza su Piazza Fontana, non credibile Carlo Di Gilio e questo ha avuto ricadute anche su Brescia. Si badi che Di Gilio era riscontrato direttamente su diversi punti da Siciliano, indirettamente da Vinciguerra ed altri testi, inoltre le tesi di Di Gilio erano coerenti con il quadro complessivo formatosi in questi anni e si incrociavano anche con diverse note confidenziali. Vero è che Di Gilio è caduto in contraddizione su diversi punti ed ha ricevuto alcune (limitate) smentite da elementi fattuali o documentali. Ma gli elementi a conferma, almeno dal punto di vista numerico, prevalevano nettamente.

Confrontiamo il caso Digilio con quello del collaboratore di giustizia che ha accusato Sofri nel processo Calabresi, Leonardo Marino: smentito su circostanze decisive da alcuni testi (alcuni dei quali sostenevano che alla guida dell’auto c’era una donna e non un uomo, come sostenuto da Marino), smentito da diversi elementi materiali e da dati di fatto (come la via di fuga prescelta che, all’epoca era un senso vietato), contraddettosi ripetutamente e sprovvisto di testi a riscontro, ma creduto credibile dalla Cassazione in ripetute pronunce (salvo una che lo riteneva non credibile neppure nell’auto accusa) sulla base di un’unica deduzione: non avrebbe avuto alcun interesse ad autoaccusarsi.

Che Di Gilio abbia subito un pregiudizio sfavorevole lo si ricava anche un piccolo elemento: egli aveva parlato di un alto ufficiale inglese di stanza presso la base Nato fornendone le generalità, la Cassazione ritenne trattarsi di una sua bugia in quanto tale ufficiale non sarebbe mai esistito, non risultando nulla che ne confermasse l’esistenza. E, invece, non solo l’ufficiale esisteva, ma era stato anche intervistato dalla Bbc.

Un altro aspetto degno di attenzione è quello del trattamento del reato associativo. Nel caso delle Br una giurisprudenza costante (e molto, molto discutibile) stabilì una sorta di inversione dell’onere della prova, per cui l’affiliato all’organizzazione rispondeva di tutti i reati compiuti da essa, salvo dimostrazione di prova contraria. Fu la premessa del famoso “non poteva non sapere” con il quale furono inquisiti i segretari di partito nei processi di tangentopoli.

Chi scrive queste righe è convinto che si trattasse di una bruttura giuridica e non invoca certamente l’applicazione di questo orientamento ad altri, tuttavia, se è da respingersi questo ribaltamento dell’onere della prova, possiamo però mantenere l’appartenenza ad una organizzazione cui si attribuisce la strage come un indizio (ripetiamo: un indizio, non una prova conclusiva in sé) di colpevolezza. E, invece, la corte d’Assise d’Appello di Milano che procedeva per piazza Fontana, ha sostenuto che colpevoli della strage con certezza, ma non più processabili, perché assolti definitivi, furono Freda e Ventura (la cui assoluzione, nonostante l’esistenza della piena prova, fu dovuta “al clima del tempo” che influenzò la corte del tempo: come vedete certe cose le dicono gli stessi collegi giudicanti) ma non ha minimamente tenuto in considerazione che gli imputati sottoposti al suo giudizio appartenevano alla stessa area politica di cui facevano parte i precedenti.

Da un punto di vista tecnico, punti su cui si sono infrante tutte le recenti istruttorie per strage sono stati essenzialmente due: il forte rigore nell’ammissione delle prove (la questione si è riproposta proprio nel processo di appello per Brescia, dove l’ammissione fra le prove di una registrazione avrebbe probabilmente fatto pendere la bilancia dalla parte della condanna almeno per alcuni) e la ricostruzione del quadro di insieme.

In un processo di tipo indiziario è decisivo l’elemento della convergenza degli indizi, quel che attribuisce un ruolo di grande rilevo al contesto in cui essi si inseriscono. Ma, se il giudicante si dedica allo smontaggio pezzo per pezzo di ogni singolo elemento, perdendo di vista l’insieme, la convergenza degli indizi sfuma. Ed è esattamente quello che è sistematicamente accaduto per piazza Fontana, Fatebenefratelli e piazza della Loggia (almeno per il primo grado, per il secondo grado vedremo leggendo le motivazioni).

Ma un esame più in dettaglio lo faremo in altra occasione. Qui ci limitiamo a segnalare le disparità di valutazione degli elementi di giudizio rispetto ad altri casi e la tecnica giuridica di formazione del giudicato. Quel che ci permette di affermare che, se nella prima ondata di giudizi furono determinanti i depistaggi della polizia giudiziaria e dei servizi, nel caso delle sentenze più recenti il problema sta tutto nell’atteggiamento delle corti giudicanti assai poco inclini verso le tesi dell’accusa.

Ci sembra di poter dire che si è formato una sorta di “pregiudizio sfavorevole” alle tesi accusatorie verso gli imputati di estrema destra, che incide pesantemente nell’esito finale. Diversamente riesce difficile spiegare quel dato statistico così irragionevolmente basso. Non pensiamo che i giudicanti siano ideologicamente affini, né che ci sia un interesse politico attuale a coprire le responsabilità dell’estrema destra o che attualmente ci siano elementi di apparati dello Stato coinvolti in quelle vicende. Tutto questo è superato. Il problema si pone in termini diversi: la corporazione giudiziaria si ritrae di fronte alla necessità di smentire il suo operato precedente, è assai poco disposta a condannare uomini dell’Arma, dei servizi o della polizia (per quanto ormai in pensione) per quella “collusione corporativa” che tutt’ora produce le sistematiche assoluzioni di poliziotti e carabinieri accusati di violenze e persino di morte di comuni cittadini (Diaz, Giuliani, Aldovrandi, Spaccarotella, Cucchi… devo continuare?).

La continua campagna - cui hanno dato manforte Alte cariche dello Stato ed importanti mass media - contro le “dietrologie” che osano parlare di “strategia della tensione”, “strage di Stato”, “doppio Stato”, che contribuiscono ad indirizzare la magistratura in questo senso. E così, in particolare la Cassazione si è rivelata assai ricettiva di questo clima ed ha formato una “giurisprudenza di indirizzo” cui le corti sottostanti si sono ben presto conformate. Anche la carriera ha le sue esigenze.

Peraltro, queste inchieste - a differenza di altre più fortunate - non sono venute da punti forti interni alla magistratura (Procure particolarmente importanti, personaggi noti ed influenti, sostenuti da questa o quella corrente della Magistratura ecc.) ma da uffici periferici o da singoli magistrati non adeguatamente sostenuti all’interno della corporazione. E, dunque, il corpo del potere giudiziario ha finito per sentire questi processi come estranei a sé, non funzionali agli assetti di potere interno (quante brillanti carriere sono state aperte da qualche cause cèlèbre ?) e non sostenute neppure da un diffuso allarme sociale (come i procedimenti per mafia). Insomma casi rognosi e poco produttivi ai fini degli obiettivi politici della corporazione.

Tutto questo pone una volta di più il problema di come funziona la giustizia in questo paese. Il nefasto ventennio berlusconiano ha fatto passare sotto silenzio l’emergenza giustizia che c’è in questo paese e della quale occorrerà tornare a parlare. Nella formazione del giudicato penale più rilevante si avverte con chiarezza che pesano troppi elementi extraprocessuali e questo non è più tollerabile.

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