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Secondo le mie forze e il mio giudizio: intervista a Chiara Lalli

Chia­ra Lal­li è sta­ta do­cen­te di Lo­gi­ca e Fi­lo­so­fia del­la Scien­za (Uni­ver­si­tà “Sa­pien­za” di Rto­ma, Pri­ma Fa­col­tà di Me­di­ci­na e Chi­rur­gia) e do­cen­te di Epi­ste­mo­lo­gia del­le Scien­ze Uma­ne (Uni­ver­si­tà di Cas­si­no, Fa­col­tà di Let­te­re e Fi­lo­so­fia). Ha pub­bli­ca­to li­bri su bio­e­ti­ca e di­rit­ti. La in­ter­vi­stia­mo a pro­po­si­to del suo ul­ti­mo Se­con­do le mie for­ze e il mio giu­di­zio. Chi de­ci­de sul fine vita. Mo­ri­re nel mon­do con­tem­po­ra­neo (Il Sag­gia­to­re).

lalli

Re­da­zio­ne: Lei nota come l’au­to­no­mia del­l’in­di­vi­duo sia spes­so pre­va­ri­ca­ta dal­le “ra­gio­ni” del­la col­let­ti­vi­tà. Ep­pu­re è al­me­no dal 1789 che i di­rit­ti del­l’uo­mo han­no co­min­cia­to a es­se­re con­si­de­ra­ti pre­va­len­ti su­gli in­te­res­si del­la co­mu­ni­tà in cui vive. Sem­bra tut­ta­via che que­sta an­ti­te­si deb­ba con­ti­nua­re e far­si sem­pre più con­flit­tua­le. Sono po­si­zio­ni in­con­ci­lia­bi­li?

Lal­li: L’au­to­no­mia in­di­vi­dua­le, in ge­ne­ra­le, può en­tra­re in con­flit­to con al­tri va­lo­ri. Nel do­mi­nio sa­ni­ta­rio, può scon­trar­si con i do­ve­ri pro­fes­sio­na­li del­l’o­pe­ra­to­re sa­ni­ta­rio o con for­me più o meno espli­ci­te di pa­ter­na­li­smo (“ti ob­bli­go per il tuo bene”) e di mo­ra­li­smo (“ti ob­bli­go per­ché è giu­sto così”). La ten­sio­ne è ine­li­mi­na­bi­le, ma l’au­to­no­mia in­di­vi­dua­le do­vreb­be ri­ma­ne­re il prin­ci­pio re­go­la­to­re e la sua re­stri­zio­ne do­vreb­be es­se­re giu­sti­fi­ca­ta solo in pre­sen­za di va­li­de ra­gio­ni. Come nel caso di dan­ni a ter­zi o di in­ca­pa­ci­tà di in­ten­de­re e di vo­le­re (si pen­si al TSO).

A suo modo di ve­de­re “il pa­ter­na­li­smo è in buo­na sa­lu­te”. Tan­to che pre­sta mol­ta at­ten­zio­ne al­l’at­teg­gia­men­to dei me­di­ci, spes­so non in­te­res­sa­ti alle esi­gen­ze dei pa­zien­ti, e tal­vol­ta an­che trop­po in­te­res­sa­ti alle pro­prie po­si­zio­ni di po­te­re. Il suo li­bro del 2011 C’è chi dice no era de­di­ca­to al­l’o­bie­zio­ne di co­scien­za e an­che in que­sto te­sto ne par­la in re­la­zio­ne al fine vita. Ri­cor­da inol­tre che “c’è il ri­schio che si dif­fon­da l’er­ro­nea idea che in as­sen­za di un con­sen­so in­for­ma­to si pos­sa ag­gi­ra­re o igno­ra­re la vo­lon­tà del sin­go­lo”. I cit­ta­di­ni par­ti­co­lar­men­te at­ten­ti alla pro­pria li­ber­tà de­vo­no dun­que co­min­cia­re a sce­glie­re bene gli spe­cia­li­sti a cui si ri­vol­go­no?

È uti­le sa­pe­re qua­li di­rit­ti ab­bia­mo: pen­so alla con­trac­ce­zio­ne d’e­mer­gen­za (per la qua­le non è per­mes­so in­vo­ca­re l’o­bie­zio­ne di co­scien­za) o alla pos­si­bi­li­tà di ri­fiu­ta­re qual­sia­si trat­ta­men­to sa­ni­ta­rio. Po­trem­mo poi non vo­ler ave­re un gi­ne­co­lo­go obiet­to­re di co­scien­za, e sa­reb­be me­glio non sco­prir­lo solo quan­do ab­bia­mo bi­so­gno di qual­co­sa che lui giu­di­ca im­mo­ra­le o con­tra­rio alla sua co­scien­za.

Se­con­do le mie for­ze e il mio giu­di­zio è un’a­na­li­si a tut­to cam­po sui temi del fine vita e de­di­ca di­ver­se pa­gi­ne alla dot­tri­na del­la Chie­sa e alla sua per­du­ran­te in­fluen­za. Ha il­lu­stra­to con un ef­fi­ca­ce esem­pio la pro­spet­ti­va cat­to­li­ca: se “per noi è na­tu­ra­le che un es­se­re uma­no è bi­pe­de se ha due gam­be”, per essa “un es­se­re uma­no è bi­pe­de in quan­to tut­ti gli es­se­ri uma­ni sono per loro na­tu­ra bi­pe­di; an­che un em­brio­ne di due gior­ni — che di gam­be non ha nem­me­no l’ab­boz­zo — è bi­pe­de, per­ché nel suo DNA c’è ‘scrit­to’ che ha due gam­be”. Le con­se­guen­ze di tale im­po­sta­zio­ne pos­so­no es­se­re le più biz­zar­re, come l’in­na­tu­ra­li­tà del­la so­prav­vi­ven­za for­za­ta con le mac­chi­ne im­po­sta da chi si fa al­fie­re del­la leg­ge na­tu­ra­le. Il ri­sul­ta­to è che il di­rit­to alla vita e alla sa­lu­te fi­ni­sce per es­se­re “tra­sfor­ma­to in un do­ve­re”. Il pro­ble­ma è che que­sta dot­tri­na ha ri­schia­to e ri­schia di es­se­re in­tro­dot­ta nel­la le­gi­sla­zio­ne. Qua­le sfor­zo cul­tu­ra­le è ne­ces­sa­rio per im­pe­dir­lo?

Io ana­liz­zo la te­nu­ta di al­cu­ni ar­go­men­ti, non la dot­tri­na del­la Chie­sa. Ci sono ar­go­men­ti, con­si­de­ra­ti ti­pi­ca­men­te re­li­gio­si o cat­to­li­ci, che al­cu­ni han­no la pre­te­sa di im­por­re a tut­ti ma che sof­fro­no di con­trad­di­zio­ni pro­fon­de. Ognu­no è li­be­ro di se­gui­re co­man­da­men­ti in­coe­ren­ti, biz­zar­ri o ma­gi­ci ma quan­do ci spo­stia­mo sul pia­no del­la coer­ci­zio­ne le­ga­le do­vrem­mo se­gui­re al­tre re­go­le. Inol­tre, pos­so pen­sa­re che la (mia) vita sia sa­cra, ma non pos­so co­strin­ge­re gli al­tri a es­se­re d’ac­cor­do con me e a vi­ve­re di con­se­guen­za. La pro­spet­ti­va li­be­ra­le ha un in­con­tro­ver­ti­bi­le van­tag­gio: chi non vuo­le de­ci­de­re per sé, può ri­nun­cia­re alla pro­pria au­to­de­ter­mi­na­zio­ne. In un mon­do il­li­be­ra­le, in­ve­ce, tut­ti do­vrem­mo pie­gar­ci a re­go­le det­ta­te da qual­cun al­tro, a pre­fe­ren­ze e a giu­di­zi al­trui.

A pro­po­si­to di le­gi­sla­zio­ne. La giu­ri­spru­den­za, so­prat­tut­to gra­zie al­l’im­pe­gno di Bep­pi­no En­gla­ro, ha ri­co­no­sciu­to l’im­por­tan­za di te­ne­re con­to del­le vo­lon­tà espres­se in pas­sa­to dal ma­la­to non più in con­di­zio­ne di de­ci­de­re. Lei ne so­stie­ne l’e­si­gen­za, pur­ché sia uno “stru­men­to leg­ge­ro”, e ne elen­ca i po­chi tas­sel­li in­di­spen­sa­bi­li. È una pro­spet­ti­va rea­li­sti­ca, nel­l’I­ta­lia con­tem­po­ra­nea?

È dal­la Co­sti­tu­zio­ne che la vo­lon­tà in­di­vi­dua­le è giu­di­ca­ta con­di­zio­ne ne­ces­sa­ria per ogni in­ter­ven­to o trat­ta­men­to sa­ni­ta­rio, e non c’è ra­gio­ne per igno­rar­la quan­do non è at­tua­le (ac­ca­de, pe­ral­tro, in ogni con­sen­so in­for­ma­to: espri­mo la mia vo­lon­tà ora per il fu­tu­ro; que­sto fu­tu­ro in ge­ne­re è pros­si­mo, ma ri­ma­ne il fat­to che l’e­spres­sio­ne del con­sen­so sia ri­vol­to a un tem­po suc­ces­si­vo). Non di­men­ti­chia­mo di con­si­de­ra­re le al­ter­na­ti­ve: se ri­fiu­tia­mo di ri­spet­ta­re la vo­lon­tà pre­ce­den­te­men­te espres­sa di un in­di­vi­duo che non è più in gra­do di espri­mer­la (o di aver­la per­ché il suo si­ste­ma ner­vo­so cen­tra­le è gra­ve­men­te com­pro­mes­so), qua­li re­go­le do­vrem­mo se­gui­re? Non è pre­fe­ri­bi­le ri­spet­ta­re quel­la sua vo­lon­tà — sep­pu­re espres­sa nel pas­sa­to — in­ve­ce di igno­rar­la? Per qua­le ra­gio­ne do­vrem­mo ave­re la stra­fot­ten­te pre­te­sa di pen­sa­re che avreb­be cam­bia­to idea o che la no­stra de­ci­sio­ne sia mi­glio­re del­la sua? Di­rei quin­di che è una pro­spet­ti­va già at­tua­le, seb­be­ne a vol­te ma­lin­te­sa e ag­gre­di­ta dal­l’i­dea che non sia­mo in gra­do di de­ci­de­re ri­guar­do alla no­stra sa­lu­te e alla no­stra esi­sten­za. Se vo­glia­mo se­gui­re que­sta stra­da di in­com­pe­ten­za esi­sten­zia­le, al­lo­ra dob­bia­mo es­se­re di­spo­sti ad ac­co­glie­re tut­te le im­pli­ca­zio­ni: sia­mo così inet­ti da aver bi­so­gno di tu­to­ri e go­ver­nan­ti, e que­sto non può cer­to es­se­re li­mi­ta­to alle de­ci­sio­ni sa­ni­ta­rie.

 

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