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Se pure i sindacati “radicali” si arruolano...

In un’intervista pubblicata ad aprile anche su alcuni siti italiani un dirigente sindacale di Conlutas e militante del PSTU brasiliano ci fornisce una “versione marxista” delle tesi di Stoltenberg sulla guerra in Ucraina: negoziato impossibile, bisogna combattere fino alla sconfitta di Putin. Perciò, ne deduce, i lavoratori devono allearsi con Zelenski. Ma Zelenski non sembra intenzionato ad allearsi coi lavoratori ucraini.

Ad aprile alcuni siti italiani hanno pubblicato un’intervista in cui Herbert Claros (DinamoPress240422), esponente sindacale di CSP Conlutas, una sorta di sindacato di base alternativo alla CUT brasiliana, e militante del PSTU, Partidos Socialista do Trabalhadores Unificado, presenta la “carovana di solidarietà per i lavoratori ucraini”, lanciata ad aprile insieme alla CGT spagnola (anarcosindacalista) e all’Union Syndicale Solidaires (sindacato vicino al Nouveau Parti Anticapitaliste francese, organizzazione trotskista fondata nel 2009, quando raccolse il 5% alle europee).

Claros premette che “la nostra posizione è contro l’aggressione russa, ma allo stesso tempo vogliamo denunciare l’ipocrisia dell’imperialismo europeo e statunitense che si esprimono attraverso la NATO. Chi muore in guerra […] sono i lavoratori, le persone delle classi sociali più deboli, donne, bambini e anziani. I potenti, i grandi capitalisti sono invece ben protetti nei loro bunker”.

E tuttavia, aggiunge, non si può avere una “concezione astratta” della pace: “Per noi, purtroppo, una vera pace in Ucraina non si può ottenere con un negoziato, perché nelle date condizioni e negli attuali rapporti di forza un negoziato rappresenterebbe una vittoria per Putin. […] ci è chiaro che qualsiasi accordo o la vittoria militare di Putin significano la trasformazione dell’Ucraina in una dittatura sotto il controllo straniero.” E ricorda: “l’esempio del Vietnam ci dimostra come sia possibile battere l’imperialismo”, perciò bisogna “rafforzare la resistenza ucraina con l’invio di armi, di aiuti, di cibo e materiale sanitario affinché il popolo possa vincere questo conflitto”.

Claros non nega i paradossi di questa alleanza con un governo che a marzo ha approvato leggi punitive per i lavoratori e il sindacato e che ha integrato nell’esercito milizie di estrema destra, ma, spiega: “Penso che una guerra sia un momento in cui c’è bisogno di combattere insieme ad altri gruppi, anche se ci sono divisioni politiche molto profonde con loro. Se il tuo paese è sotto l’occupazione di una forza straniera, la classe operaia deve unirsi alla resistenza, ma senza fidarsi ciecamente del governo, poiché ogni governo capitalista nutre un odio di classe. E una cosa è difendere il proprio territorio e la propria sovranità, un’altra è difendere un governo o gruppi di destra. Devi combattere contro l’occupazione e anche usare le armi per difendere i tuoi diritti come classe operaia.”

Insomma “è proprio per questo motivo che difendiamo il diritto di lavoratori e lavoratrici a imbracciare le armi: perché in questo modo stanno lottando contro l’invasore e allo stesso tempo possono lottare per i propri diritti in seno alla società di cui fanno parte. Pensiamo alla seconda guerra mondiale in Francia: fu dopo la vittoria contro l’occupante nazista e dopo la riconsegna delle armi da parte dei lavoratori al governo che quest’ultimo aumentò la repressione verso la classe operaia.”

Queste posizioni, che ripropongono un vecchio dibattito nel movimento dei lavoratori, meritano qualche riflessione, tanto più se arrivano da un raggruppamento di organizzazioni sindacali con una matrice politica di “estrema sinistra”. Prima però faccio una premessa. I lavoratori ucraini dai 18 ai 60 anni sono mobilitati per legge: c’è chi continua a produrre, chi combatte e chi, invece, svolge attività di supporto. Per loro, prima ancora che il legittimo diritto all’autodifesa, vige un obbligo normativo. Perciò disquisire del diritto di impugnare le armi e di resistere appare, questo sì, abbastanza astratto: i lavoratori ucraini hanno tutto il diritto di difendersi con le armi in pugno, ma bisognerebbe chiedersi se questa per loro sia l’opzione più efficace (per oggi e per domani), quali siano le alternative in caso contrario e, infine, in che modo i “proletari di tutto il mondo” debbano battersi per aprire la strada a tali alternative e renderle praticabili. Perché anche l'internazionalismo non può essere ridotto a una petizione di principio. E il fatto che non ci siano soluzioni preconfezionate non esime dalla necessità di cercarle né giustifica che ci si nasconda dietro questa oggettiva difficoltà per abbracciare teorie già sperimentate e bocciate senza appello dalla storia.

Venendo all’intervista Claros vi ripropone la classica strategia “a tappe”: prima i lavoratori si alleano con la propria borghesia nazionale per respingere l’invasione russa, anche a costo di fomentare un nuovo Vietnam sul suolo europeo, poi si torna alla normale dialettica del conflitto di classe. Nel frattempo, secondo il sindacalista brasiliano, le armi occidentali addirittura rafforzerebbero i lavoratori ucraini: “imprese e compagnie multinazionali si sono rivelate molto restie a metterla in pratica [la riforma del lavoro approvata a marzo] proprio perché hanno paura della forza di lavoratori e lavoratrici che in questo momento sono armati”.

Il ragionamento di Claros ha due punti deboli. Il primo è che in Ucraina non si combatte una guerra regionale tra Kiev e Mosca, ma un conflitto tra gli imperialismi americano ed europeo e la potenza militare russa (con l’alleato cinese sullo sfondo) portato avanti non solo a colpi di artiglieria sui campi di battaglia dell’Ucraina, ma a colpi di sanzioni, attacchi informatici e propaganda in un teatro di operazioni che è già globale. Presentare la guerra come un conflitto regionale che potrà essere deciso da un’alleanza – eufemisticamente presentata come “combattere insieme” – tra i lavoratori ucraini e il governo degli oligarchi filo-occidentali di Zelenski, dunque, è fuorviante. In un contesto di questo tipo, infatti, le alleanze non possono essere che internazionali: allearsi con Zelenski, nascondendosi dietro il “diritto all’autodifesa”, significa allearsi con gli imperialismi occidentali e le élites di cui essi sono espressione. Pensare che un sindacato possa sostenere Zelenski in Ucraina e a casa propria invece lottare contro gli alleati di Zelenski, che già scaricano sui lavoratori i costi della guerra, vuol dire essere schizofrenici.

Il secondo aspetto è che qui di fatto non si teorizza semplicemente il “combattere insieme”, ma una totale subordinazione agli interessi delle oligarchie locali e straniere e dei governi che le rappresentano, in cui l’unica forma di indipendenza politica consentita ai lavoratori è intellettuale: non fidarsi “ciecamente” del governo ucraino. E questa tesi viene sostenuta da un sindacalista proprio mentre il governo ucraino manda i sindacalisti come lui lontano dalle loro aziende, al fronte; le grandi aziende pubbliche e private ne approfittano, applicando massicciamente le leggi speciali a scapito dei lavoratori; i “servitori del popolo” alla Verkhovna Rada lavorano per approvare in fretta e furia una deregulation ancor più drastica per il dopoguerra (si veda l’articolo che segue) e, infine, mentre i sindacati ucraini cercano di resistere a questa offensiva coi mezzi a disposizione (tra cui non rientra certamente un’insurrezione armata). Un approccio che a Kiev indebolisce qualunque tentativo di opporsi al massacro fisico e sociale dei lavoratori ucraini e a Mosca rafforza la presa del nazionalismo di Putin e dei nostalgici di Stalin su quelli russi.

Per un’organizzazione sindacale subordinarsi alla retorica bellicista, che usa Zelenski e lo sventurato popolo ucraino come fonte di legittimazione, significa pregiudicare la possibilità di essere un supporto e un punto di riferimento per i lavoratori ucraini quando la guerra finirà e per quelli americani ed europei quando l’impatto sociale della guerra dispiegherà a pieno i propri effetti su di loro e la propaganda ci spiegherà che bisogna sacrificarsi per la democrazia. In Italia, ad esempio, se teorizziamo che i lavoratori ucraini debbano “allearsi” (cioè sottomettersi) a Zelenski in nome della democrazia, finiamo inevitabilmente per concluderne che anche i lavoratori italiani devono fare altrettanto con Draghi, alleato di Zelenski, e scegliere, come dice lui, tra la pace e l’aria condizionata.

Una guerra vinta, ammesso che la si vinca, rafforza sempre chi comanda, non chi subisce passivamente. Se chi si richiama alla sinistra rivoluzionaria finge di non saperlo e si lascia arruolare fa una scelta che lo attrae irreversibilmente nel campo sociale avversario. 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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