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Scuola e laicità: dove un’idea religiosa è più uguale delle altre

Quando un mese fa Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, dichiarò di essere diventato più “laico” impiegava questo termine nel suo uso più ampio. Si richiamava infatti all’eventuale legalizzazione della droga e non al “supremo principio” di separazione tra Stato e chiese (di diretta derivazione dalle controversie sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole). Separava piuttosto le ingerenze dello Stato dalla vita privata del cittadino manifestando il rifiuto di qualsiasi approccio dogmatico a favore di un razionale esame della realtà.

Un uso del termine, al contrario, alquanto misero fu quello rilanciato da Ratzinger una decina d’anni fa. Siccome ormai anche i papi non possono non dirsi laici, gli parve cosa buona e giusta limitarsi all’essenziale separando in modo rigoroso solo il clero cattolico dal resto della popolazione, “laica” in senso generico: questa obbedisce, quello comanda, come ai bei tempi, e niente Relativismus. È la sedicente “sana laicità”, che risale a ben prima di Ratzinger, dove l’aggettivo snatura il sostantivo tramutandolo nel suo opposto, e chi non è d’accordo è relegato nel patologico laicismo.

La laicità, sia chiaro, ha una lunga storia e il termine può essere usato legittimamente nelle più diverse accezioni. L’importante sarebbe essere chiari ed evitare di giocare con le parole. Si sente dire ad esempio che la scuola statale è laica, ma lo è davvero? e in che senso? Molti sembrano limitarsi a riconoscere, obtorto collo, che la Chiesa non ha più il monopolio diretto nella formazione dei giovani per cui possono esistere anche le scuole statali, purché però siano “sanamente” prone ai principi del cattolicesimo. Ecco dunque l’urgenza del proselitismo ricicciare ovunque non vi siano specifici divieti e talvolta anche dove ci sarebbero.

Sarebbe magari il caso che le scuole pubbliche mantenessero un atteggiamento costituzionalmente “neutrale” o almeno “equidistante” in ambito religioso? Di più, magari sarebbe compito della scuola difendere e diffondere tale “imparzialità”? Accade l’opposto, anzi la scuola è uno dei terreni in cui la laicità viene calpestata o aggirata con maggior frequenza. Le opinioni religiose sono tutte uguali, ma una è più uguale delle altre (mentre la non credenza è la meno uguale di tutte).

Due ordini di giustificazioni vengono addotte, quando proprio non se ne può fare a meno, a sostegno di ingerenze e discriminazioni di vario genere:

  1. Il cattolicesimo è un fattore di unità morale della nazione e di convivenza civile, una parte integrante del nostro patrimonio storico e quindi dell’identità culturale del nostro popolo, la radice storica della nostra civiltà, il nucleo venerando della cultura e delle tradizioni del nostro paese.
  2. È il segno dell’origine trascendente dei valori che fondano l’identità dell’Italia, dell’Europa, dell’intero Occidente, cioè del rispetto di tutte le fedi religiose, dell’autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, della solidarietà umana, del rifiuto di ogni discriminazione, dei principi di rispetto reciproco e valorizzazione della persona, dell’affermazione dei suoi diritti, del riguardo alla libertà, di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato che trovano espresso riconoscimento nella nostra Carta costituzionale.

Elucubrazioni come queste (prodotte da magistrati crociferi poco disposti a distinguere laicamente le proprie incombenze da quelle degli storiografi) hanno ormai, è proprio il caso di dirlo, fatto scuola. L’identità e la storia di un popolo o dell’Occidente tutto sono ridotti semplicisticamente a un blocco unitario, omogeneo e statico da ereditare e far proprio in toto. Una specifica prevalenza religiosa durata lunghi secoli assurge da mero fatto a valore e a dovere. Non si tratta più di un oggetto di studio, nel bene e nel male, ma di un destino da consegnare acriticamente alle giovani generazioni. Tantomeno sembrano interessare le cause violente di tale supremazia che proprio il principio di laicità è inteso a scongiurare. La tutela delle minoranze è ancora una volta sacrificata al dispotismo della maggioranza.

Il secondo punto pretende di elevarsi su un piano astorico, anzi, cancellando o ribaltando i fatti reali che dimostrerebbero facilmente la falsità di tesi tanto fantasiose, apertamente antistorico. Prima ancora è l’argomentazione stessa a svilire quei valori che finge di voler esaltare. Si tratta della proiezione retrospettiva di principi oggi universalmente accettati, quasi fossero non un faticoso, travagliato e per nulla scontato né definitivo punto d’arrivo di un processo storico, ma il traguardo necessario e insieme, fin dall’inizio, il nucleo sostanziale di quella stessa identità, che lungo la via avrebbero incontrato giusto qualche trascurabile fraintendimento. Abbandonata la storiografia, si è ormai passati a una propa­gandi­stica storia della provvidenza (una filosofia della storia nel caso degli atei devoti persuasi che il popolo bue vada disciplinato coi dogmi), frutto della mistica intuizione del senso autentico di una rivelazione che pare sfuggire agli storici di professione, quelli che scrivono i manuali, a partire da quelli scolastici.

I danni compiuti da questo approccio non solo alla consapevolezza storica degli studenti, ma al loro senso critico, al senso di realtà e al buon senso, nonché a un sereno approccio a rischiosi fenomeni identitari come quello religioso sono evidenti.

Andrea Atzeni
Docente e attivista del circolo UAAR di Varese

Questo articolo è stato pubblicato qui

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