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Sarajevo, basta la parola

L’unico luogo al mondo in cui i più grandi monoteismi si guardano, si studiano, si scrutano a pochi metri di distanza. Ma non si odiano. La città torna a vivere e ci chiede due cose: di non ricordarla solo ogni dieci anni in occasione degli anniversari “tondi” dello scoppio della guerra; e di vigilare affinché le mafie e la pessima politica di questi anni vengano messi alla porta.

Sono così tante le parole che il suo solo nome, Sarajevo, evoca e fa venire alla mente, da rendere arduo il metterle in fila e farle uscire dalla bocca, una per una.

Sarajevo è città dolce e spigolosa, aperta e ostinata, urbana e contadina, mistica e pervicacemente laica. È da sempre residenza e ispirazione per letterati, artisti, grandi poeti e immensi teatranti. È sede di commerci e viandanti che s’incontrano nei caravanserragli di ieri e d’oggi. È luogo degli opposti, in cui le diversità da oltre mezzo millennio s’incontrano, mescolano e convivono in serenità e armonia.

Il suo nome stesso – Sarajevo – è simbolo di simbiosi e ibridazione tra due culture ancor prima che queste s’incontrassero e si fondessero tra loro. La parola saraj è infatti turca e sta a testimoniare la radice ottomana della fondazione di Sarajevo. Il primo governatore (bej) turco di Sarajevo fu Isa-Beg Isaković, l’uomo che aveva conquistato nel 1463 la nuova provincia ottomana di Bosnia e che da subito dette il via all’edificazione della sua residenza e futuro palazzo del potere, appunto il saraj, che prese il nome di Konak. Saraj è dunque termine turco utilizzato per descrivere un palazzo fortificato al cui interno si svolgessero mansioni governative o amministrative. Il nome slavo della città era invece Saraje Ovasi, traducibile come “castello in pianura”. I primi Slavi erano giunti laddove sorge oggi Sarajevo intorno al 500 dopo Cristo. Il suffisso “evo” del nome della città deriva proprio da ovasi e la fusione dei due termini determinò la nascita dell’appellativo odierno della città, originato dalla fusione di due parole provenienti da due diverse lingue.

E non pensiate che col 1463, con la conquista ottomana, sia cominciata la conversione forzata dei cristiani. Tutte bugie. La conversione fu soffice e indolore e i primi a convertirsi – e a trasformarsi negli antenati degli attuali musulmani bosniaci, la cui provenienze etnica è la stessa identica di cattolici e ortodossi – furono i bogomili, ovvero gli aderenti a una setta eretica cristiana forse fondata da un ex prete ortodosso, perseguitati sia dai cattolici che dagli ortodossi. Costoro, per reagire alle persecuzioni man mano si convertirono all’Islam, ottenendo così un riscatto sociale trasformandosi in proprietari terrieri e commercianti.

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Due amiche a sarajevo
Due ragazze in un bar a Sarajevo: la differente appartenenza religiosa non impedisce loro di convivere serenamente (foto Luca Leone).

Sarajevo oggi è ancora così, figlia dell’amalgama di più culture, religioni, usanze, rispettosa delle genti che la visitano o vi vivono. È stata, lungo 1.350 giorni, il bastione indefesso della libertà contro il nazifascismo sanguinario dell’ultranazionalismo serbo e serbo-bosniaco che l’anno assediata e quasi rasa al suolo, facendo piovere sulle città – tra il 1992 e il 1995 – una media di oltre trecento granate al giorno, che nelle fasi più acute della devastazione sono diventate più di tremila (!) nell’arco di sole ventiquattr’ore. La città ha pagato all’assedio un dazio di sangue terribile, con oltre 11.000 morti, più del 10 per cento dei quali bambini. Cifre orribilmente simili, quasi identiche, a quella pagate dalla città in occasione di un altro assedio nazista e fascista, quello avvenuto durante la seconda guerra mondiale.

La distruzione non ha però fermato Sarajevo e la sua gente. Tra mille difficoltà – provocate dal sistema economico neoliberista innestato su un sistema sociale distrutto dalla guerra e dalle divisioni indotte dai nazionalismi cattolico, ortodosso e musulmano – la città sta rinascendo e i giovani stanno tornando a fare cultura, musica, teatro. La città torna a vivere e ci chiede due cose: di non ricordarla e rievocarla solo ogni dieci anni in occasione degli anniversari “tondi” dello scoppio della guerra; e di vigilare affinché le mafie e la pessima politica di questi anni vengano messi alla porta.

Sarajevo ha bisogno di noi, delle nostre menti libere e prive di pregiudizi. Sarajevo ci aspetta per visitarla e conoscerla. Non farlo equivale a dare ragione ai criminali – Ratko Mladić, Radovan Karadžić, Slobodan Milošević e loro eguali – che hanno provato a cancellarla e a violarne la natura.

In nessuna città al mondo nel volgere di poche centinaia di metri quadrati è possibile visitare la sinagoga ebraica, la cattedrale cattolica, quella ortodossa e la più antica e grande moschea dei Balcani. Che si creda o meno in Dio – qualunque nome Egli abbia e ammesso che esista – non si può non visitare il luogo, l’unico al mondo, in cui i più grandi monoteismi si guardano, si studiano, si scrutano a pochi metri di distanza. Ma non si odiano.

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