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Salario minimo e Riforma della contrattazione, appuntamento col destino

Repubblica segnala che il governo, dopo il fallimento del periodo concesso alle parti sociali per la riforma della contrattazione collettiva, potrebbe prendere l’iniziativa e spostarne il baricentro verso l’ambito aziendale e territoriale, introducendo contestualmente il salario minimo. In questo troverebbe sponda da parte di Confindustria, il cui presidente, Giorgio Squinzi, sta mandando evidenti segnali di insofferenza per lo stallo nel negoziato con i sindacati, arenatosi sulla precondizione di Cgil e Uil a trattare solo dopo il rinnovo col vecchio schema dei contratti collettivi dell’industria.

Se le cose andranno così, si materializzerà “l’appuntamento col destino” per il sistema italiano della contrattazione collettiva, qualcosa che l’esecutivo aveva in mente da tempo ma che è sinora stato tenuto sullo sfondo del dibattito, quasi in penombra, sia per la priorità data al Jobs Act sia perché la materia della contrattazione collettiva spetta alle parti sociali. Ma i tempi non sono ordinari, e non è detto che la “tradizione” venga rispettata. Già lo scorso anno emergevano chiare indicazioni della direzione che il governo voleva prendere, come voci dal sen fuggite a qualche ministro.

Squinzi non fa mistero di considerare la riforma della contrattazione collettiva come riforma strutturale di prima grandezza, probabilmente quella centrale per trasformare i rapporti di produzione nel paese e rilanciare la competitività. La decentralizzazione della contrattazione collettiva è soprattutto riforma della rappresentanza sindacale, e deve quindi trovare complemento nell’introduzione dell’istituto del salario minimo, che dovrà tuttavia essere attentamente calibrato per evitare aumenti di disoccupazione, il che implica che alcune zone del paese dovranno vedere livelli estremamente bassi della remunerazione minima.

Come evolverà e cosa implicherà per il nostro paese l’eventuale introduzione del salario minimo? Un confronto piuttosto interessante è quello col Portogallo, che presenta una struttura produttiva fatta soprattutto di piccole imprese ed un conseguente basso tasso di sindacalizzazione, che in precedenza rendeva necessario estendere gli accordi contrattuali anche ai lavoratori privi di tessere sindacali. Vietando tale estensione alle aziende non sindacalizzate, cioè soprattutto alle piccole e medie, l’effetto è stato una forte pressione ribassista sulle retribuzioni e la ricaduta di molti lavoratori nel salario minimo, più che la proliferazione di contratti aziendali di produttività e flessibilità.

Non sappiamo come evolverà la situazione italiana, ma sappiamo da sempre che il problema di questo paese è dato da un costo del lavoro che in molti ambiti territoriali è troppo elevato, e che di conseguenza spinge verso il sommerso e/o la disoccupazione. La mancata riduzione sostanziale del cuneo fiscale spinge in direzione del decentramento “spinto” della contrattazione collettiva. In conseguenza del quale potremo avere un riassorbimento della disoccupazione attraverso compressione salariale, cioè la riduzione del cuneo fiscale per altre vie, ed impatto diretto sul netto in busta.

La comparsa dei working poors necessita (o meglio, necessiterebbe) di una rete di welfare piuttosto robusto, ma le condizioni di crisi fiscale del paese non lo consentono. Motivo per cui ci attende, oltre ad una profonda metamorfosi dei rapporti di produzione, una transizione piuttosto accidentata. Esiste quindi un rischio non trascurabile di passare da poors senza welfare a working poors parimenti senza welfare. Ma questi sono movimenti tettonici tipici della vita dei paesi in declino. E le risorse fiscali non spuntano durante le notti di plenilunio, di solito.

(Foto: kiki99/Flickr)

 

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