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Roma, sit-in CasaPound: la riflessione di chi è stato aggredito

Aggressioni verbali, spinte, sputi e insulti durante il presidio di CasaPound dello scorso 15 febbraio 2018 tenutosi a Roma dopo lo stupro di una 75enne avvenuto sotto i portici di piazza Vittorio.

E’ questa la maniera di fare e di esprimersi dei militanti di CasaPound. Ne sono stati vittime un gruppetto di giovani, tre ragazze e un ragazzo. Due di loro stavano per essere intervistati da un giornalista che chiedeva un punto di vista sulle motivazioni del sit-in quando sono stati bruscamente interrotti da alcuni militanti di CasaPound intromessisi con toni abbastanza accesi. Da lì parte il valzer degli spintoni, degli sputi e dei calci. Abbiamo contattato una delle persone vittima dell’aggressione, E. F. che ha preferito non soffermarsi tanto sul fatto accaduto quanto piuttosto fare una riflessione larga e profonda sul momento che sta vivendo il nostro Paese. 

Quella di ieri è stata la reazione spropositata e violenta ad un tentativo di contrastare ideologie che portano a chiusure pregiudiziali nei confronti dell’alterità. Ciò che penso è che la paura nei confronti dell’altro derivi appunto da una poca conoscenza delle persone con cui viviamo gli spazi pubblici.

La chiusura alla comunicazione è quindi al contempo conseguenza e causa stessa della paura; è per questo che diventa importante invece lavorare affinché si rompano le barriere della percezione del pericolo.

E’ importante per coloro che giungono nel nostro Paese come è importante per noi, perché la paura non fa vivere bene, la paura diventa ossessione, e ci si sente perseguitati da quello che altro non è che un fantasma creato da noi stessi. Gli atteggiamenti sociali ermetici portano a radicalizzazioni e fondamentalismi, da una parte e dall’altra.

Ciò che mi auguro è che possa avvenire una contaminazione tra culture. Per esperienza personale posso dire che gli immigrati di cui parlano i manifestanti di Casapound e che incontro per strada tutti i giorni, di cui molti sono in realtà migranti, altro non fanno che cercare interazioni con i cittadini al fine di approfondire la lingua o mettere in pratica ciò che imparano nelle scuole di italiano.

Questo non vuol dire che l’episodio di violenza sulla senza tetto tedesca non sia accaduto, né che non accadano in generale, ma la catalogazione di episodi drammatici non può diventare un inventario statistico che, attraverso paura e terrore, condizioni le abitudini, i comportamenti, gli atteggiamenti e la predisposizione allo scambio con l’umanità.

Non possiamo vivere in un’assenza di fiducia stazionaria.

Questi sono sentimenti naturali ma portati all’esasperazione dalle politiche razziste e agorafobiche. Sentimenti che si risolvono solo attraverso l’apertura al confronto.

La nostra rabbia nasceva da questo: dalla consapevolezza che chiudersi e “immaginare” l’altro non fa bene.

Non fa bene neanche immaginare soluzioni superficiali e semplicistiche alla crisi economica e sociale che l’Italia sta vivendo, soluzioni di cui partiti e movimenti, sia di destra che di sinistra, fanno uso sempre più smodato alla ricerca di voti sotto campagna elettorale.

Le stesse affermazioni del comizio di Davide Di Stefano riguardo la necessità di chiudere i centri di accoglienza e allo stesso tempo le lamentele riguardo i migranti che vivono in strada nei pressi della stazione Termini indicano quanto la sua analisi sia sconnessa e priva di capacità d’interpretare la realtà.

Della violenza ricevuta ieri non ci interessa, ci interessa che la gente possa farsi un’idea sul tipo di persone che militano all’interno di CasaPound e che possa ricredersi riguardo i migranti e la situazione sociale che vive nel quotidiano.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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