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Roma e l’impero del crimine

Il luogo è Roma, non una città qualunque, va da sé, perché a nessuno verrebbe di pensare di separare ciò che vi succede dalla storia generale del paese. Specie se ha da fare con il potere, o con il crimine; specie se il crimine lascia il sospetto o consegna l’evidenza di un rapporto molto stretto con il potere.

Non so se è questo il motivo che spinge Yari Selvetella a occuparsi di Roma da tempo, avendogli dedicato più di un titolo; ossia se la sua sia una passione in fondo più politica che da cronista. Perché se a Roma la criminalità spicciola non è mai mancata, è indubbio che le trame più interessanti di una storia criminale che attraversa tutto il secolo scorso e oggi sembrano vieppiù infittirsi, si nascondono non solo nell’intreccio affaristico-malavitoso delle sigle “classiche” (mafia, ‘ndrangheta, camorra), della persino ahinoi mitizzata “Banda della Magliana” e i deliri più o meno plausibili di “diventare i padroni di Roma”, ma soprattutto fattacci e atti anche mancati di non tanto occulta matrice politica, golpista, non senza interessamenti e chiavi di lettura internazionali.

L’attenzione dunque del volume Newton Compton Roma. L’impero del crimine è rivolta soprattutto agli ultimi cinquanta, sessant’anni. Roma diventa la scena- compresa quella sotterranea, un mondo nel mondo, un altro mondo magistralmente raccontato va detto da Selvetella - che per il suo peso istituzionale attira la scaltra o scaciata voracità di ciociari, russi, triadi cinesi… Perché il crimine a Roma è “un marchingegno che non è mai fermo”, una specie di “porto franco” in cui “hanno trovato rifornimento pirati di ogni risma e provenienza”.

Gruppi, interessi, masnade di faccendieri che si son fatti la guerra fra loro, e talvolta, come dire, hanno fatto feroce comunella, per tenersi ognuno gli affari reciproci - quelli immobiliari, del mattone, della droga, della mondezza, del riciclaggio camorristico sulla direttrice Roma-Napoli, pizzerie, bar, ristoranti, negozi d’abbigliamento.

Per tornare al motivo politico, i tentativi di golpe non hanno un unico movente né un’unica direzione, ma, scrive Selvetella, l’ossessione anticomunista sembra un filo robusto per tenerli insieme. Dal colpo di pistola a Togliatti, al fascistissimo principe Borghese, repubblichino della Decima Mas e fallimentare promotore del “golpe dell’Immacolata” (1970). Prima di morire gli piacque confessare in un’intervista alla televisione svizzera che avrebbe voluto sterminare tutti i comunisti italiani.

Se diamo un’occhiata a Edgardo Sogno, ammiratore di Pinochet, lo stesso, un gran voglia di sparare ai “traditori italiani”, quelli che avrebbero voluto un governo comunista, manco a dirlo. Ed era solo il 1993, la notte di un luglio drammatico, quando il telefono di Palazzo Chigi fu improvvisamente isolato, e Ciampi tornò in fretta e furia da Santa Severa ché ormai il golpe era a un passo dal realizzarsi - lo ha ricordato egli stesso di recente. Va detto che alla destra al governo fino a poche settimane fa la notizia dette un certo fastidio.

Le bombe a Roma non sono mai mancate. Nemmeno le uccisioni in pieno giorno. Se il delitto politico vi trova il suo centro d’elezione, ora il centro degli affari puliti nemmeno più in superficie sempre più allontana da sé le periferie cui parrebbe non restare che la risorsa suicida del mito: assomigliare sempre più al loro cattivo stereotipo. Non solo storie, fatti, dunque, ma clima, e interrogazione sui punti morti del racconto: perché a Roma non c’è più un parco giochi, si domanda Selvetella? Che significa questo?

Più che una cronaca di misfatti, un romanzo sul cuore nero di una città, non una qualunque evidentemente. Di un bravo scrittore.

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