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Riina e la "morte dignitosa" | Antigone: uno stato forte e democratico non fa morire nessuno in carcere

“In attesa di leggere le motivazioni della pronuncia della Cassazione, quella riguardante Riina è una sentenza molto importante poiché pone il tema della dignità umana e di come essa vada preservata anche per chi ha compiuto i reati più gravi e, di conseguenza, come la pena carceraria non possa e non debba mai trasformarsi in una sofferenza atroce e irreversibile”. A dirlo è Patrizio Gonnella, presidente di Antigone.

di  Associazione Antigone 

“Ancora oggi – prosegue Gonnella – ci sono detenuti che da circa 25 anni sono continuativamente sottoposti al regime duro di vita penitenziaria disciplinato dall’art 41 bis 2° comma dell’ordinamento penitenziario. Alcuni di loro versano in condizioni di salute gravissime tali da non poter costituire mai un pericolo all’esterno”.

“Dal punto di vista del principio espresso dai giudici della Cassazione non possiamo che essere totalmente d’accordo. Se non fosse così vorrebbe dire che per noi la pena è pura vendetta. Rispetto invece alle preoccupazioni di tipo criminale – sottolinea ancora Gonnella – qualora mai un detenuto come Riina avesse l’opportunità di essere curato fuori dal carcere sarà comunque cura degli organi investigativi e delle forze dell’ordine fare in modo che ciò possa avvenire senza che questo costituisca un rischio relativamente alla commissione di nuovi reati”.

“Uno stato forte e democratico – conclude il presidente di Antigone – non fa mai morire nessuno in carcere deliberatamente”.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di Pere (---.---.---.148) 6 giugno 2017 16:18

    Penso a tutti gli uccisi dalla mafia di Riina e alla morte dignitosa che hanno avuto. 

    Ma forse certi atteggiamenti di buonismo assurdo sono legati a qualche favore da rendere. Con simili atteggiamenti è ovvio che le democrazie non possono battere le mafie e i cartelli, che continuano a prosperare grazie ai soldi, alla violenza e intimidazione e alle legioni di avvocati, e a chi pensa che si deve offrire l’altra guancia.

  • Di GeriSteve (---.---.---.41) 7 giugno 2017 18:23

    La mafia è nello stato e nei partiti.

    Parliamoci chiaro: al giorno d’oggi buona parte dei suoi reati la mafia li compie attraverso le istituzioni statali, regionali ecc...

    La mafia è profondamente entrata nelle istituzioni e non solo. Questa sentenza della corte costituzionale ne è la prova, ed è soltanto l’ultimo effetto della trattativa stato-mafia.

    Questa bella uscita del presidente di Antigone è difficile da classificare: potrebbe essere collusione o semplice ingenuità. Però, per quanto ingenui si possa essere, non capisco proprio come si faccia a pensare che il nostro stato sia uno stato forte e democratico.

    Il nostro stato è debolissimo e sta soccombendo alla mafia. E se manda fuori del carcere il mafioso gran capo delle stragi diventa ancora più debole, certo non più forte.

    Dire che il nostro stato sia democratico è un grande azzardo: il nostro stato è dominato dai partiti politici che non solo sono ben infiltrati dalle mafie, ma alle mafie assomigliano sempre più. Al loro interno anch’essi sono organizzati verticisticamente dall’alto verso il basso e al basso dell’Italia, cioè ai cittadini italiani, impongono chi, secondo loro, li deve rappresentare in parlamento, con leggi elettorali chiarissimamente antidemocratiche e anticostituzionali. Di questo i nostri presidenti della repubblica non se ne accorgono mai e la corte costituzionale se ne accorge solo dopo anni.

    Si può parlare di stato forte e democratico? e se è chiaro che purtroppo l’Italia non lo è affatto, si può pensare che per diventarlo, invece di cacciare via la mafia dallo stato, lo diventi scarcerando un boss che tutt’ora manda minacce di morte al pm Di Matteo e che non ha mai rivelato la rete di complicità che gli ha permesso di raggiungere e mantenere a lungo quel potere?

    E che non ha mai rivelato per mantenere quali segreti ha ordinato di intimidire un mafioso facendo sequestrare il suo figlioletto, facendolo strangolare e facendolo sciogliere nell’acido?

    GeriSteve

  • Di patrizia cecconi (---.---.---.185) 7 giugno 2017 19:47

    Rispondo con un mio articolo pubblicato oggi da L’Antidiplomatico il cui titolo è "Pìetas o vendetta? Non è questo il problema"

    Sulla clemenza che la Corte di Cassazione propone di accordare a Riina, uno dei più sanguinari e mai pentiti delinquenti italiani, si sta scatenando un dibattito che, secondo la migliore tradizione alla Orazi e Curiazi, è presto uscito dalla dialettica del diritto e anche da quella della pìetas umana imboccando la via dell’incomprensione tipica del fanatismo da tifosi.

    Che Riina sia un mostro umano è fuori da ogni dubbio e questo, in verità, lo ammettono anche i suoi difensori e le tante anime clementi che stanno perorando il suo diritto a uscire di galera perché vecchio e malato, ancorché tuttora capace di comandare omicidi a distanza ai suoi “picciotti”.

    Il dibattito che si sta scatenando sui social tende a incanalarsi su due binari che portano fuori strada e che si stanno sempre più definendo, l’uno, come vendetta che negherebbe il diritto a una morte dignitosa e l’altro, come il suo contrario e cioè il diritto ad un trattamento umano e dignitoso che la galera non consentirebbe.

    Proviamo a tornare su quello che riteniamo essere il binario corretto per una discussione che come base abbia il rispetto del diritto e non dimentichi l’umanizzazione della pena.

    Il dibattito è partito dalla proposta della Cassazione ad una morte dignitosa. Bene, crediamo che tutti, compresi i nazisti che le nostre galere ospitarono quali Kapler o Priebke, abbiano diritto a una morte dignitosa e quindi anche Riina. E questo non dovrebbe neanche essere posto in dubbio, perché lo Stato di diritto non può utilizzare la prigione come vendetta, pena il non essere più Stato di diritto.

    Ma se si dà per scontato che non si può garantire una morte dignitosa in galera, sembra conseguente che neanche la vita in galera lo sia. Quindi, la vita nelle prigioni italiane violerebbe il Diritto umanitario internazionale e non solo in singoli orrendi casi venuti agli onori della cronaca (vedi Stefano Cucchi, per esempio) ma come consuetudine tollerata dalle nostre Istituzioni.

    Praticamente sarebbe come dire che l’Italia si comporta con i carcerati in modo simile a quel che fa Israele con i prigionieri palestinesi o la Turchia con gli oppositori politici, o l’Arabia Saudita e via elencando? 

    Se è così e le Istituzioni ne sono al corrente, scendiamo, noi cittadini democratici, tutti in strada per chiedere il rispetto dei diritti umani per i detenuti in Italia, quali che siano i crimini commessi, perché non può essere la vendetta – sentimento individualmente comprensibile per chi è stato vittima del delinquente, ma non certo obiettivo dello Stato – a definire le condizioni carcerarie. Lo stesso carcere duro secondo l’art. 41 non ha come obiettivo la rappresaglia verso il criminale, bensì il non consentire che questi possa ancora commettere o comandare crimini attraverso il contatto con l’esterno.

    Ma il dibattito in Italia, in quella sorta di moderna agorà rappresentata dai social, sta andando oltre la via del diritto, sia da parte di chi chiede la scarcerazione di Riina, sia da parte di chi la considera una scelta sbagliata.

    Il potere della piazza a dibattito libero ha, purtroppo, il difetto di radicalizzare e semplificare le posizioni, per cui capita di leggere insulti pesanti scambiati tra le due tifoserie, i quali investono anche chi articola il proprio pensiero su tutt’altra base che quella viscerale, sia in un campo che nell’altro. E in tutto ciò si dimentica l’essenziale, cioè il diritto che - lo ripetiamo - dovrebbe essere garantito a tutti, ad una morte dignitosa; si confonde la richiesta della Corte di Cassazione al tribunale di Bologna con una sentenza definitiva; si dimentica che Riina è accudito in un centro clinico di eccellenza e non è certo sottoposto a incuria medica né tantomeno a percosse e umiliazioni come denunciato da altri detenuti per i quali, chissà perché, la dignità non è argomento da considerare.

    Da parte della tifoseria pro-scarcerazione in nome della pìetas umana, si tende a trascinare nel campo dei vendicatori viscerali anche coloro che si appellano al diritto alla morte dignitosa senza sospensione della pena o arresti domiciliari che sarebbero l’onore concesso a un capomafia mai pentitosi, ancora riconosciuto tale e il cui potere, più che simbolico, verrebbe rafforzato nel caso in cui potesse tornare nella sua casa, nonostante i 17 ergastoli, tra gli onori che è facile immaginare gli verrebbero tributati.

    Sarebbe, in conclusione, un omaggio neanche troppo indiretto, a Cosanostra e ai poteri corrotti dello Stato con cui Riina ha condiviso potere e crimini nella sua lunga vita di capomafia.

    Per questo, anzi “anche” per questo, riteniamo che l’ottantaseienne Toto Riina abbia il diritto ad essere accompagnato, senza sospensione della pena, ad una morte dignitosa nonostante si sia macchiato di crimini tanto efferati che dal punto di vista umano non consentono a nessuno di definirlo persona meritevole dell’appellativo di dignità.

    Ma lo Stato di diritto non scende al livello dei criminali che giudica e quindi è giusto che Riina seguiti ad avere, come già ha, il diritto a tutte le cure possibili che possano ridurre la sofferenza di un vecchio uomo che, per legge di natura, si avvicina alla morte, e saranno proprio queste cure (che ci auspicheremmo venissero offerte a tutti) a non permettere alla situazione detentiva di andare oltre “la legittima esecuzione della pena” che rappresenterebbe la condizione per la sua scarcerazione.

    Che muoia dignitosamente (al di là della sua indegnità umana) in carcere. Per rispetto di quel Diritto che altrimenti subirebbe una grave lesione di cui tutti noi saremmo vittime.

     Patrizia Cecconi

  • Di Bruto (---.---.---.250) 7 giugno 2017 23:30

    "Io ho detto al bambino di mettersi in un angolo, cioè vicino al letto, quasi ai piedi del letto, con le braccia alzate e con la faccia al muro. Allora il bambino, per come io ho detto, si è messo faccia al muro. Io ci sono andato da dietro e ci ho messo la corda al collo. Tirandolo con uno sbalzo forte, me lo sono tirato indietro e l’ho appoggiato a terra. Enzo Brusca si è messo sopra le braccia inchiodandolo in questa maniera (incrocia le braccia) e Monticciolo si è messo sulle gambe del bambino per evitare che si muoveva. Nel momento della aggressione che io ho butttato il bambino e Monticciolo si stava già avviando per tenere le gambe, gli dice ‘mi dispiace’ rivolto al bambino ‘tuo papà ha fatto il cornuto’ .
    (…)
    Il bambino non ha capito niente, perché non se l’aspettava, non si aspettava niente e poi il bambino ormai non era… come voglio dire, non aveva la reazione di un bambino, sembrava molle… anche se non ci mancava mangiare, non ci mancava niente, ma sicuramente la mancanza di libertà, il bambino diciamo era molto molle, era tenero, sembrava fatto di burro… cioè questo, il bambino penso non ha capito niente. Sto morendo, penso non l’abbia neanche capito. Il bambino ha fatto solo uno sbalzo di reazione, uno solo e lento, ha fatto solo questo e non si è mosso più, solo gli occhi, cioè girava gli occhi.
    (…)
    Io ho spogliato il bambino e il bambino era urinato e si era fatto anche addosso dalla paura di quello che abbia potuto capire o è un fatto naturale perché è gonfiato il bambino. Dopo averlo spogliato, ci abbiamo tolto, aveva un orologio da polso e tutto, abbiamo versato l’acido nel fusto e abbiamo preso il bambino. Io ho preso il bambino. Io l’ho preso per i piedi e Monticciolo e Brusca l’hanno preso per un braccio l’uno così l’abbiamo messo nell’acido e ce ne siamo andati sopra.
    (…)
    Io ci sono andato giù, sono andato a vedere lì e del bambino c’era solo un pezzo di gamba e una parte della schiena, perché io ho cercato di mescolare e ho visto che c’era solo un pezzo di gamba… e una parte… però era un attimo perché sono andato… uscito perché lì dentro la puzza dell’acido era… cioè si soffocava lì dentro. Poi siamo andati tutti a dormire".
    TOTÒ RIINA
    ( Gabriele Saetti‎ - Associazione Poliziotti Italiani - sez. Bergamo
    Bergamo,)
    Fonte: Gabriella Vitali

    • Di kindlyreqd (---.---.---.75) 11 giugno 2017 03:02

      Dopo aver letto questa descrizione, mi sono chiesto perchè. Perchè fare una deposizione così dettagliata ed agghiacciante, perchè non dire semplicemente "l’abbiamo strangolato e poi sciolto il cadavere in acido"? Perchè tutti questi particolari che nulla aggiungono alla verità dei fatti, che non sono giustificati dalla volontà (del tutto assente) di collaborare con la giustizia e che mostrano solo la ferocia e l’indifferenza per la vita umana di chi li ha commessi mettendolo in tal modo nella peggiore luce?

      E questo è il racconto (e quanto di simile o peggiore descritto in altre deposizioni), fatto da una persona che non ha mai ritrattato, non si è mai pentito e con il suo comportamento ha sempre dimostrato che rifarebbe tutto ciò che ha fatto.
      La risposta che mi sono dato è solo una: costui, continuando a svolgere il ruolo che forse svolge tuttora, ha volutamente e scientemente fatto una descrizione la più dura e cruda possibile per dare un messaggio, il tipico avvertimento mafioso del tipo "Attenti! Questa è la fine che facciamo fare ai cornuti ed ai loro cari !".
      Non trovo altra spiegazione. A fronte di un a tale considerazione, questa diatriba a mio parere perde molto di significato. Non c’entra nulla la vendetta, come pure la pietà per un uomo che si avvia al termine della sua vita: qui c’è un un individuo che neppure chiede clemenza in nome di un cambiamento avvenuto nel proprio animo, ma sfrutta con un ricatto morale i buoni sentimenti del prossimo, sentimenti di cui è privo e che non rispetta, per il proprio vantaggio. E c’è da scommettere che se lo si accontentasse, invece di esserne grato, se ne farebbe beffe e vanto con i suoi compari.


  • Di pv21 (---.---.---.242) 8 giugno 2017 19:22

    (dis) Lessico >

    Il dettato Costituzionale non delinea i caratteri di una “morte dignitosa”. Vi si afferma che tutti i cittadini hanno “pari dignità sociale” in quanto membri di una stessa società che detta comuni norme di convivenza. Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione che assicuri “un’esistenza libera e dignitosa”. L’attività economica privata non può recare danno alla “dignità umana”.

    E’ evidente che detta “dignità” implica un adeguato ambito di libertà nell’agire e gestire, in autonomia, i propri interessi e rapporti personali.


    Mentre l’ergastolo è la pena che, per definizione, commina il regime di carcerazione per la restante parte della vita. Per contro.

    NON si tratta di essere rinchiusi in un angusto cubicolo, appena rischiarato da una feritoia, avendo per suppellettile solo un pitale. A nessun carcerato possono essere negate le cure medico-sanitarie di cui necessiti.

    In pratica non si possono adottare “trattamenti contrari al senso di umanità” (art.27).


    Ciò detto.

    Tutt’altra cosa è rivendicare per un pluriomicida gli arresti domiciliari e/o il soggiorno presso una normale struttura ospedaliera in nome di un “preteso” diritto a una “morte dignitosa”. Dove “dignità” significa solo il non voler morire in carcere.


    Postilla.

    CAPITA di morire in carcere anche senza essere degli ergastolani pluriomicidi.

    Ossia. Se al posto dell’ergastolo venisse comminato un numero definito (e consistente) di anni di detenzione, questo non eviterebbe il riproporsi di casi analoghi.

    Troppo semplice è inneggiare alla “dignità” facendo appello al buonismo di tanti.

    Meglio “setacciare” la portata di certi Riflessi e Riflessioni calibrate per scopi …

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