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Reportage alla rovescia: viaggio dentro il giornalismo italiano

Reportage alla rovescia: viaggio dentro il giornalismo italiano
 
La parola passione deriva dal latino passio, forte commozione dell’animo. E’ un’emozione violenta che domina la volontà di chi la prova. Passione è il trasporto totale per un’idea, è un impegno spontaneo, è un interesse profondo. Un amore incontrollabile. E’ una vocazione che ci spinge verso qualcosa facendoci prendere posizione nel mondo: tanto rara quanto riconoscibile, salta all’occhio al primo sguardo. Passione è colei che mi fa decidere cosa volere, cosa cercare di realizzare. Passione è colei che mi ha fatto lasciare con dolore indicibile la mia famiglia e la mia terra, per aggiungere un piccolo tassello al puzzle culturale di questo Paese. Colei che mi ha portata di peso a documentare tragedie collettive come quella de L’Aquila e della provincia di Messina, per dare voce ai terremotati e agli alluvionati, agli immigrati e ai senzatetto, alle vittime dei poteri forti e ai cittadini che perdono il diritto di gridare.

Passione è colei che insieme a me fa fare sacrifici ad altre migliaia di giovani che si vogliono ricostruire il futuro con le proprie mani, solo con le proprie forze e senza raccomandazioni.

L’avevo osservata nei miei sogni per anni, quella redazione. L’avevo immaginata così intensamente e nei minimi dettagli che quando ci sono entrata per la prima volta mi era sembrata l’ennesima e ogni scrivania, ogni sedia e ogni finestra sembrava appartenere alla mia storia. Una storia che era cominciata alle lezioni universitarie per matricole, tra le pagine di una rivista speciale che è entrata nei cuori di almeno due generazioni di italiani motivati a capire il mondo per cambiarlo.

Lo sanno tutti: sono questi i giornali che spruzzano un po’ di sale democratico nel logorato dibattito culturale italiano; sono i giornali a cui gli italiani si abbonano con entusiasmo, i giornali a cui le persone ancora pensanti scampate al morbo televisivo si aggrappano per tenere sveglie le connessioni nervose dentro al loro cranio. Sono i giornali che lentamente hanno sostituito in umanità e curiosità le sinistre, ereditandone il ruolo di portavoce dei popoli e dei deboli del mondo. Sono quei giornali in cui migliaia di miei coetanei sono disposti a lavorare gratis, a fare carte false per entrare anche solo a respirare l’aria che vi circola dentro. Sono stata anch’io tra questi, e ho criticato aspramente chi, già dall’altra parte, mancava di entusiasmo per ciò che era riuscito ad ottenere. Con una laurea in giornalismo, tre lingue straniere e un bel po’ di pubblicazioni, decine di curricula in cinque anni sono stati cestinati senza ricevere risposta (archiviati, come preferisce dire la segretaria di redazione, ma è lo stesso). Dopo cinque anni di appelli caduti nel vuoto non mi sono arresa e ho provato a passare dalla porta posteriore, scrivendo direttamente al direttore con i cui editoriali sono cresciuta. E ce l’ho fatta.


Lo sanno tutti: sono queste le redazioni più importanti del Paese, dove si decide ogni mattina l’agenda setting e il grado di partecipazione e indignazione che dobbiamo mettere nella vita. Quello che forse non tutti sanno è che queste redazioni spesso sono piene di intellettuali snob da quattro soldi e radical chic che non hanno idea di cosa sia la condivisione, la modestia, l’impegno, l’innovazione. Piene di uomini e di donne (con le dovute poche eccezioni) che nel percorso della loro vita si sono dimenticati che la passione è rara e riconoscibile, e che salta all’occhio al primo sguardo. Forse non tutti sanno che uno stagista che lavora per mesi gratis o semi-gratis nelle redazioni importanti delle nostre edicole è un fantasma senza identità, che siede accanto a redattori che non sono interessati a conoscerlo né a sfruttare le sue potenzialità. E’ un fantasma che non occorre guardare in faccia, né coinvolgere più dello stretto necessario perché svolga il piccolo degradante compito che gli si assegna rispetto agli obiettivi generali del giornale. Un fantasma che impallidisce ogni giorno di più nel vedere che gli vengono corrette alcune cose giuste con spocchia e superficialità, e che altri commettono errori che non vengono controllati. Forse non tutti sanno che i collaboratori esterni di questi giornali, che accumulano mille lavori da casa per racimolare i soldi per una stanza in affitto, guadagnano mezzo centesimo a battuta e devono consegnare tutto in tempi record.

Si tratta di luoghi di cultura che si accartocciano su se stessi nella costante ricerca di altezzosa autorevolezza. A dispetto dei nuovi luoghi di condivisione orizzontale della cultura e dei nuovi metodi di finanziamento dal basso dei processi giornalistici, in queste redazioni il prestigio è verticale e segue la linea del triangolo sulla cui punta, tenuto in gran conto, siede il direttore (che nel migliore dei casi non si degna di stringere la mano o di interessarsi a conoscere i nuovi arrivati; nel peggiore, fa loro delle strigliate preventive appena solca la porta d’ingresso). Sono uffici più simili a una catena di montaggio che a una squadra: imitano gli ideali della sinistra rivoluzionaria solo nella forma ovale del grande tavolo nella sala riunioni e nelle posizioni scomode che tutti i redattori sono costretti ad assumere per non addormentarsi durante i monologhi del capo.

Lo sanno tutti che sono questi i giornali che rendono l’Italia un paese migliore. Ma ho scoperto che sono molti i giovani che hanno captato la loro matrice autoreferenziale e che si allontanano sempre di più da queste lavatrici di passione a gettoni, che risucchiano chiunque ci passi vicino privandolo della capacità di guardarsi allo specchio. Sono giornali che piantano alberi in Africa per salvare il pianeta ma che sprecano quantità enormi di carta per stampare da internet gli articoli sull’argomento di cui si deve scrivere. Sono giornali che sostengono a parole le vittime dei conflitti ma non si rendono conto del trattamento che riservano agli aspiranti giornalisti e alla violenza psicologica a cui li sottopongono per mancanza di umanità e gratificazione, rimproverandoli se propongono un qualche passo verso l’apertura al web 2.0 e ai social network. Dinosauri della carta, mastodonti della chiusura. Sono giornali che si dicono impegnati nell’innalzamento del livello culturale del proprio Paese, ma che boicottano le altre iniziative con aggressività e spietatezza (altre riviste o manifestazioni).

Un mio amico reporter mi ha detto: "Beh, non lo sapevi che è così?" ed è stato allora che ho capito. E’ così che funziona l’ambiente culturale in Italia. E’ così che artisti, scrittori, giornalisti e intellettuali si stanno ancora una volta rivelando in tutta la loro natura snob e stanno deteriorando, con testa alta e gobba sui libri, il rapporto con la realtà, con la gente, con i valori originari della condivisione. E’ così che la cultura vera in Italia - quella autentica che si deve contrapporre alla cultura vuota della tv - è diventata profondamente e irrimediabilmente antipatica.

Non c’è da sorprendersi se poi, in una ribellione di massa agli smorfiosi, gli italiani votano un pagliaccio dal dubbio umorismo.

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Valeria Gentile

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