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Report: il quadro di Sgarbi e gli interessi di Brugnaro

C'era un cinese a Venezia, La tela di Vittorio Sgarbi e Vino connection: i servizi di Report andati in onda ieri.

C'era un cinese a Venezia di Walter Molino e Andrea Tornago

Si comincia con i conflitti di interesse del sindaco di Venezia Brugnaro: l’essere sia sindaco che imprenditore ha fatto bene alle sue imprese che, per evitare accuse di conflitto di interesse ha ceduto la gestione ad un blind trust.

Ma, come racconta il consulente di Report Bellavia, l’essere sindaco ha fatto bene alle sue imprese:

“quando Brugnaro ha lasciato il gruppo aveva già un’importante liquidità, stiamo parlando 7ml di euro liquidi, aveva un grosso patrimonio netto, faceva 70 ml di ricavi e guadagnava 10ml l’anno. Nel 2022 i 7 ml di liquidità sono diventati 72ml, ha decuplicato i soldi liquidi, il patrimonio netto da 60ml è passato a 380ml, i ricavi da 373ml sono triplicati ad oltre 1 miliardo di euro .. chissà che parcella gli farà l’avvocato americano. ”

A denunciare il conflitto di interesse nel comune c’è il consigliere Gasparetti: gli imprenditori conoscono bene le aziende del sindaco, gli sponsor lo stesso. Il polo nautico è stato inaugurato pochi mesi fa, i lavori sono stati fatti dalla Setten, sponsor della squadra di pallacanestro di Venezia di proprietà del sindaco. Si tratta della stessa azienda che ha restaurato il Palazzo della Misericordia, palazzo che sarà gestito da una società del Trust.

La LB Holding di Brugnaro ha dentro la Umana, una agenzia del lavoro, la Reyer, poi immobiliari, servizi di manutenzione impianti, per la manutenzione di campi sportivi … il suo Blind Trust fatto nel 2017 ha dato in gestione i suoi beni ad un avvocato americano.
Ma questo sistema in Italia non è stato regolato, Report ha chiesto spiegazioni al blind, al comune di Venezia, ma nessuno ha saputo dare spiegazione su come funzioni: l’unica è fidarsi di Brugnaro.

Quella de I Pili è un’area all’ingresso di Venezia, terreni contaminati che Brugnaro compra a prezzi stracciati nel 2005: quando si candidò a sindaco giurò che su quei terreni non avrebbe fatto nulla. Ma poi scampò un investitore cinese, il signor Kwong, specializzato in grandi operazioni immobiliari: a Venezia voleva costruire un resort di lusso a Certaldo, ma alla fine i lavori si fermarono perché l’imprenditore cinese non pagava i fornitori, come l’imprenditore Claudio Vanin. Assieme avevano lavorato a Venezia, per l’operazione immobiliare nell’area I Pili, sull’area che Brugnaro non doveva toccare: si doveva realizzare ville, centri commerciali, un porto e un palazzetto dello sport, per una operazione da 1,3 miliardi di euro.

Se il sindaco avesse trattato la vendita dei terreni ci sarebbe stato un conflitto di interesse: quei terreni erano inquinati dagli scarichi del porto di Marghera, ma la bonifica non si fece perché il sindaco propose di mettere sopra i rifiuti tossici un sarcofago di cemento. E il blind trust?
Ma Brugnaro si incontrò con Kwong e col suo rappresentante in Italia Lotti, nel 2016, al casinò di Venezia dove il sindaco spiega come sviluppare i suoi terreni al cinese, comprati a prezzi stracciati. E che avrebbe garantito tutte le autorizzazioni edili. Era un incontro col Brugnaro sindaco o col Brugnaro imprenditore?

Vanin racconta di altri incontri tra il sindaco e Kwong, dove si modificavano la disposizione delle costruzioni, nei primi mesi del 2018: Kwong fu spiazzato dalla richiesta di pagare subito 10 milioni a Brugnaro, a prescindere dalla realizzazione del progetto, così l’affare de I Pili saltò.

Ma altre partite andarono meglio: Kwong comprò dei palazzi del comune, palazzo Donà e palazzo Papadopoli, per venderli era necessaria una procedura pubblica, ma Report è in possesso di una mail in cui Lotti scrive che avrebbe incontrato il braccio destro del sindaco, nessun problema sull’acquisto del palazzo. Palazzo Donà venne dato in gestione all’assessore della regione Veneto, pur avendo ricevuto Kwong offerte migliori da altre società alberghiere nella regione.
Palazzo Papadopoli era stato valutato 14 ml, la giunta Brugnaro decide di venderlo a Kwong, unico a partecipare alla gara, per 10 ml: anche qui, diverse mail raccontano di trattative tra Lotti e il comune.

L’assessore del comune Boraso ha presentato in giunta la valutazione al ribasso del palazzo: tutto fatto rispettando la legge risponde oggi. Sono emerse poi delle fatture (emesse da una società a cui dentro era presente Vanin) a società riconducibili all’ex assessore Boraso, per attività di consulenza sul territorio veneto, per immobili privati.
Tutto questo avviene mentre è in corso la trattativa per l’acquisto di palazzo Papadopoli – racconta Vanin, che lancia una accusa pesante, facendo supporre la presenza di una tangente.

L’ex assessore risponde a Report che la vendita dei due palazzi è stata fatta tramite procedura pubblica e che quella consulenza non aveva niente a che fare con l’imprenditore cinese: “dica a Ranucci di occuparsi di cose più serie”.

La tela di Vittorio di Manuele Bonaccorsi in collaborazione di Thomas Mackinson

Nell’esposizione organizzata dal sottosegretario Sgarbi a Lucca era presente anche un suo quadro, attribuito a Rutilio Manetti: un dipinto identico ad un secondo, un’opera rubata in Piemonte. Nell’opera di Sgarbi è presente una fiaccola che nella scheda dell’interpol manca: i giornalisti Bonaccorsi e Mackinson si sono recati a Lucca a chiedere conto a Sgarbi di questi due quadri.

Secondo Sgarbi l’opera è stata trovata in una villa da lui acquistata nel viterbese nel 2000: si trattava di un immobile vuoto, abbandonato, dentro sarebbe stato trovato questa opera. Un caso fortuito, secondo il sottosegretario che, aggiunge, esiste anche un atto nell’archivio di Stato che parla di quell’opera. Ma nell’atto non si parla di Manetti.

Secondo il servizio di Report il quadro di Sgarbi è molto simile ad un altro, rubato nel 2013 dentro un castello a Buriasco: la signora Margherita Buzio ha ricevuto i due giornalisti, mostrando quello che rimane del quadro. I ladri hanno tagliato la tela e lasciato sopra un’immagine appiccicata: l’opera è proprio quella di Rutilio Manetti che rappresenta la cattura di Pietro.

Quel quadro era stato adocchiato da Sgarbi, che aveva visitato il castello più volte, nelle settimane precedenti al furto un certo Paolo Bocedi si era presentato dalla signora Buzio per l’acquisto del quadro. Si tratta del presidente dell’associazione Italia Libera,referente della commissione anti usura della regione Lombardia, grande amico del critico d’arte.
Bocedi ricorda di essere stato a Buriasco con l’autista di Sgarbi, per informarsi sul quadro.

Nel giugno 2013 l’opera di Manetti riappare: Gianfranco Mingardi è un importante restauratore di opere d’arte, per vent’anni uno dei preferiti di Vittorio Sgarbi: il deputato lo chiama perché deve portargli un quadro, era una tela arrotolata “io non avrei mai pensato una cosa del genere” spiega a Report, “che facesse grattare le opere d’arte, lo vedi no? Lo vedi che è tagliata, no?”.


Bocedi consegnò il quadro a Mingardi: oggi, di fronte a questa storia si dimostra preoccupato, da presidente di una associazione anti racket, “sarebbe una bella figura di m..”

Mingardi una volta ricevuta la tela si preoccupa, teme che se il quadro risultasse rubato potrebbe finirci di mezzo lui e allora chiama al telefono Sgarbi, chiedendo un documento che certifichi la proprietà: “Vittorio ascoltami, mi mandi la carta per cui il dipinto è tuo, così io sono tranquillo, te lo faccio e basta. E lui mi ha narrato la storia del dipinto che stava a villa Maidalchina ..”.

Sgarbi ai due giornalisti ha risposto che si tratta di due quadri diversi, c’è una luce che nell’altro quadro non c’è, è solo una storia di strane coincidenze, cerca di giustificarsi.

Ci sarà una perizia sul quadro, fatta su un pezzo di tela rimasto attaccato alla cornice: speriamo che questa perizia faccia luce su tutte queste coincidenze. Anche per il buon nome delle nostre istituzioni.

Vino connection di Emanuele Bellano

Il servizio di Report ha raccontato che l’immagine del viticultore che fa il vino pigiando l’uva nei tini è quanto mai falsa: il viticultore, in alcuni casi, non sempre, è più un lavoro da chimico.

Eppure sui vini, specie quelli DOCG, sono regolari da precisi disciplinari e questo giustifica il loro prezzo, superiore a quello di un vino “normale”.

È possibile, come racconta a Report Francesco Grossi esperto di vini, che è possibile lavorare l’uva con processi chimici per cambiare le qualità del vino: Grossi produce un vino senza trattazione chimica, esattamente l’opposto di quello che avviene nell’industria.

Basta scrivere imbottigliato da e non imbottigliato e prodotto da, per far credere al consumatore che quel vino derivi da un certo territorio: Sassicaia, Barolo, Amarone sono prodotti anche da uve che arrivano da altri territori, diversamente da quello che uno pensa comprando un vino DOCG.

Report, assieme all’esperto Grossi, spiega come si possa modificare il tenore zuccherino inserendo del mosto concentrato rettificato, inodore: tutto questo per non scartare l’uva di bassa qualità e continuare ad produrre lo stesso numero di bottiglie. Lo fanno in Toscana, dove sarebbe possibile solo in condizioni particolari, perché ci sono state troppe piogge..
Quando ci sono grandi produzioni si autorizzano sempre gli arricchimenti, spiega a Report Grossi: si sono realizzati vitigni su tanti terreni che nel passato erano stati dedicati ad altro.
Per il Brunello di Montalcino si deve stare attenti se sull’etichetta è indicato il nome della vigna, altrimenti il vino potrebbe essere stato addolcito dal mosto.

Ma in etichetta non sono indicate nemmeno altre sostanze, aggiunte per rendere appetibili vini: sono sostanze messe anche in vini DOC e DOCG, come quelle per correggere l’acidità o il colore trasparente (che acchiappa molto i clienti) o chiarificatori.

I chiarificatori derivano dagli scarti degli allevamenti dei suini, testa o piedi: ma il cliente vegano lo sa che nel vino che consuma potrebbe esserci gelatina derivante da pesce o suino?

La legge non impone di indicare che si sia usata la gelatina animale, o l’albumina che deriva dall’uovo perfino la Bentonite (un’argilla).

Si può correggere il colore rosso del vino o anche aggiungere degli aromi, come lampone o mora: si tratta di lieviti usati per fermentare il mosto.

Per dare l’impressione che il vino sia stato tenuto per anni in botti di rovere, si usano delle chips di rovere, che danno quel sentore di botte.

Tutto legale, le cantine le possono usare: ci sono poi gli aromi artificiali o gli aromi estratti, che si possono aggiungere al vino per dare un sentore di frutta, ma questo è illegale.

La Peronospera è un batterio che attacca i vitigni: la vendemmia del 2023 dovrebbe avere meno resa, i disciplinare costringono i produttori a non poter importare vino da altre zone. Ma Report ha raccolto testimonianze di viticoltori che parlano di traffici di uva, di uva comperata in nero, di uva da tavola fatta passare per uva da vino.
Uva che viene inviata dai produttori del sud verso il nord, anche per vitigni prestigiosi: l’uva comprata in Puglia costa anche un terzo rispetto a quella coltivata in Veneto ad esempio.
Servono certificati, creati ad hoc da viticoltori compiacenti, per spostare il vino (e non l’uva) tra cantine diverse, dal sud al nord.

Ad Adelfia, racconta Report in provincia di Bari, c’è un bar dove si tiene la borsa dell’uva da tavola da usare per vinificare: qui un mediatore porta il giornalista da un’altra azienda che spreme l’uva, da usare nei gelati ad esempio. Ma questa uva si usa anche per la vinificazione, venduta tra i 20 e i 30 centesimi al kg. Basta avere la licenza per vendere succhi di frutta..
Ma chi controlla il vino prodotto in Italia? Ci sono i controlli anche in capo al ministero dell’Agricoltura ma, come racconta l’inchiesta Pinocchio, anche sui controlli ci sono delle zone opache.

Ci sono produttori di Glera che hanno vitigni in Puglia (e non può essere usato per fare Prosecco in Veneto). Che chi ha condotto l’operazione Pinocchio per conto dell’ufficio repressione frodi in Veneto che poi è andato a lavorare presso un altro produttore.

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