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Referendum: la democrazia non è un costo

Domenica 29 marzo i cittadini italiani saranno chiamati alle urne per votare il referendum sul disegno di riforma della Costituzione che prevede la riduzione dei membri della Camera da 630 a 400 e di quelli del Senato da 315 a 200

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La riforma è stata approvata in maniera definitiva dal Parlamento nella giornata dell’8 ottobre scorso, ed ha attraversato trasversalmente il passaggio dal primo al secondo governo di Giuseppe Conte, in quanto considerata una vera e propria “misura-bandiera” dal Movimento Cinque Stelle depositario della quota di maggioranza dei seggi nelle coalizioni con la Lega e il Partito Democratico.

Intendiamo, in questa sede, presentare le ragioni di problematicità della riforma e spiegare le motivazioni che ci spingono a indicare come unica scelta funzionale per il voto del 29 marzo il “No” a una riforma politicamente problematica e, in prospettiva, dannosa per l’architettura istituzionale del Paese.

Taglio dei parlamentari, una riforma problematica

Il referendum si può considerare il punto estremo della protesta antipolitica iniziata nel 1992 con Mani Pulite, rafforzata l’anno successivo con i referendum sull’abolizione del meccanismo di preferenza e il passaggio al sistema elettorale maggioritario promossi dal trio Segni-Pannella-Occhetto e divenuta tema dominante nel corso dei venticinque anni di Seconda Repubblica. Anni in cui la politica italiana, che pure si è distinta per un’involuzione continua della qualità della classe dirigente espressa, è finita sotto torchio e nel centro del mirino, paragonata a una costosa zavorra: non a caso, nell’ottica dei promotori della riforma, guidati dall’attuale sottosegretario di Palazzo Chigi Riccardo Fraccaro, che è stato spalleggiato con forza da tutto il suo Movimento Cinque Stelle, i principali benefici della riduzione dei parlamentari sarebbero di tipo economico, piuttosto che politico. L’architrave della costituzione politica materiale, la composizione del Parlamento, diviene dunque oggetto di una valutazione costi-benefici che ascrive nelle passività ogni euro speso dallo Stato per mantenere il sistema istituzionale parlamentare.

Luigi Di Maio e Riccardo Fraccaro hanno parlato di un risparmio annuo per le casse statali di 100 milioni di euro, che stime più prudenti hanno ridimensionato attorno ai 57-60 milioni: all’incirca un euro per cittadino. Vale questa enfasi sul risparmio lo stravolgimento del sistema politico-istituzionale italiano? La riforma sul taglio dei parlamentari, rebus sic stantibus, non cambia di una virgola i rapporti tra le Camere, l’architettura costituzionale formale del rapporto tra Parlamento e governo, la regolamentazione interna al Parlamento ma crea dei profondi problemi sotto il profilo della rappresentanza territoriale e della concezione ideologica del sistema italiano.

Le minacce alla rappresentanza

Come ha fatto notare l’accademico Tomaso Montanari, “i costituenti avevano dedicato grande attenzione alla costruzione della rappresentanza, elaborando un meccanismo capace, almeno in potenza, di riprodurre in modo adeguatamente preciso le complessità della società italiana. Pur avendo uguali funzioni, Camera e Senato differivano notevolmente l’una dall’altro: per la durata (cinque e sei anni), per la base territoriale (nazionale e regionale), per l’elettorato attivo (18 e 25 anni), per l’elettorato passivo (25 e 40 anni). Stava a cuore la democrazia: non la “governabilità”, e emergeva la necessità di garantire rappresentanza adeguata alle regioni periferiche, meno rilevanti economicamente e demograficamente, dando voce all’Italia profonda in maniera equilibrata. Limitandoci all’esame della Camera se è vero che attualmente l’Italia ha un sistema in cui un parlamentare rappresenta, mediamente, un corpo elettorale di 96.000 persone, è anche vero che nel novero dei 630 onorevoli vanno inclusi 12 eletti nella circoscrizione estera e quelli facenti riferimento alle regioni Trentino-Alto Adige (11) e Valle d’Aosta (1), che hanno specificità a sé contenendo al loro interno minoranze linguistiche e culturali. E, al tempo stesso, il sistema di elezione tutela, come detto, le aree periferiche e insulari, depositarie di una quota di rappresentanza proporzionalmente superiore.

Aumentare di oltre il 50% il numero di elettori per singolo parlamentare sino a 150.000, come accadrebbe in caso di vittoria del “Si” al referendum del 29 marzo, provocherebbe un terremoto difficilmente sopportabile per molti territori. I rappresentanti della Basilicata alla Camera, ad esempio, subirebbero un taglio del 33,33%, passando da 6 a 4 deputati, mentre quelli del Senato subirebbero un taglio del 57,14%, passando da 7 a 3 senatori. Il collegio di Matera rischierebbe di perdere rappresentatività. Da 13 deputati a 8 e da 7 senatori a 4 scenderebbe il Friuli Venezia-Giulia, mentre anche Liguria, Marche, Umbria, Abruzzo, Calabria e Sardegna potrebbero trovarsi in un contesto istituzionale tale per cui la riduzione del numero degli eletti priverebbe partiti con percentuali considerevoli di rappresentanza adeguata sul territorio.

L’assalto alla centralità del Parlamento

Ma tutto questo è poco in confronto al messaggio ideologico lanciato dalla riforma. La quale contiene in sé un messaggio potenzialmente tossico: l’equiparazione di qualsiasi spesa per il mantenimento dell’apparato istituzionale a un costo amministrativo potenzialmente soggetto al rischio di venire sforbiciato. Da qui può emergere un pensiero tagliente e provocatorio: nella pratica di esaltare il taglio dei parlamentari per i risparmi, veri o presunti, che esso garantirà non è forse insita l’idea che l’intera democrazia possa essere, in fin dei conti, nient’altro che un costo? Affermare senza ambiguità l’ovvio, cioè che la democrazia non è un costo, è centrale nella nostra presa di posizione per un “No” deciso al referendum. Come scrive, con puntualità, il comitato giovanile “NOstra!” gli organi costituzionali “rappresentano il fermento vitale del vivere democratico, e non possono in alcun modo subire il condizionamento derivante dal contingentamento delle risorse. Il vero costo sarà pagato dagli italiani, in termini di qualità della rappresentanza democratica. I rischi che si corrono in questa fase di transizione sono alti: un ulteriore indebolimento degli strumenti di democrazia e rappresentanza rischia di accentuare il carattere elitario dell’attuale assetto dei poteri, con conseguente accentuazione dell’inquietante fenomeno della tecnicizzazione della decisione collettiva”.

Da oltre vent’anni il Parlamento è stato eroso nelle sue funzioni, scavalcato e calpestato consapevolmente, svuotato nella sua consistenza. Il referendum corre il rischio di passare circondato dall’indifferenza di un’opinione pubblica oramai abituata alla legislazione d’urgenza, alla decretazione, ai peones in attesa di ordini dall’esecutivo. Quasi con incredulità, nell’agosto scorso, abbiamo assistito alla parlamentarizzazione della crisi del Governo Conte I, che ha offerto un momentaneo spazio di centralità alle camere. La democrazia rappresentativa ha incontrato difficoltà enormi a relazionarsi con i vincoli di natura finanziaria, economica e burocratica che troppo spesso rappresentano un freno indebito all’azione politica. Ma la strada per superare questi vincoli non può essere quella dello scavalcamento della sovranità del Parlamento da parte degli esecutivi e, in funzione di tale mossa, il taglio giacobino dei suoi esponenti.

La strada inaugurata quasi trent’anni fa con i referendum sul maggioritario e la preferenza unica, che hanno contribuito a delegittimare i partiti, riducendo nella prassi e nel dibattito mediatico la nostra democrazia a una mera guerra tra bande, sostituendo al tema del buon governo il mito della governabilità, presto tramutatosi nella pratica costante dell’occupazione dello Stato da parte della maggioranza di turno, ha prodotto danni irreparabili: Parlamento calpestato, ridotto a mera fabbrica della fiducia. Gli ultimi anni hanno visto un ampiamento delle problematiche in quest’ambito in occasione della discussione sulle leggi di bilancio redatte dai due governi Conte.

Il Parlamento umiliato

Nel 2018 abbiamo assistito alla scelta del governo M5S-Lega di modificare con un solo, maxi-emendamento la manovra finanziaria, negando il ruolo di scrutinio e controllo del Parlamento e arrivando a un’approvazione accelerata a colpi di fiducia. Guido Crosetto, tra i più lucidi critici dell’opposizione, allora sottolineò come l’indifferenza verso il rispetto delle regole fosse oramai talmente assimilato da venir considerato quasi naturale: “Se domenica una squadra avesse iniziato a giocare la partita non mettendo la palla al centro ma sul dischetto del rigore ci sarebbero 630 deputati qui a stracciarsi le vesti, perché le regole non vanno cambiate. Invece se si infrange la Costituzione ce ne sbattiamo e ci passiamo sopra perché la maggior parte delle persone non ne capisce la gravità”.

Le parole di Crosetto sono ancor più significative se consideriamo come a un anno di distanza la musica non sia cambiata e, anzi, sia forse addirittura peggiorata. Il governo M5S-Pd ha seguito la stessa falsariga spingendo sull’acceleratore dell’approvazione a colpi di fiducia in Senato di una manovra monolitica, rendendola di fatto una delle meno democratiche di sempre. Il presidente della Camera, Roberto Fico ha, timidamente, espresso preoccupazioni per l’arrivo blindato del testo a Montecitorio dopo la ratifica in Senato, che non ha concesso ai deputati spazio per una discussione approfondita: “Tempi troppo stretti, non è tollerabile”. Solo tre i precedenti, citati dal Sole 24 Ore: con i governi Berlusconi nel 2010 e nel 2011, nel pieno della crisi mondiale e con non indifferenti condizionamenti esterni, e con l’esecutivo Renzi, sul cui rispetto costituzionale è meglio sorvolare, nel 2016.

La democrazia, il migliore degli investimenti

Calpestare il Parlamento è calpestare la democrazia. O, ancora peggio, considerarla come indifferente accessorio. E l’ipotesi più probabile è forse quest’ultima. Nella legge di bilancio assistiamo all’emersione di tutti i mali endemici del nostro approccio politico. In cui le regole sono intese come accessori provvisori. La democrazia si fa imposizione ed il dibattito parlamentare viene meno, come viene meno la civiltà della politica. Temiamo cosa possa riservarci un futuro in cui il Parlamento, dopo decenni di svuotamento, finisca marginalizzato nei numeri e nella composizione. La riforma sul taglio dei parlamentari rischia di rappresentare la certificazione definitiva dell’accettazione di uno stato di fatto preoccupante: casi come le discussioni sulla legge di bilancio testimoniano i problemi legati alla sedimentazione delle tossine maggioritarie durante la Seconda Repubblica e i loro effetti deleteri.

Affermare il “No” al referendum del 29 marzo non significa combattere una battaglia di retroguardia, ma rifiutare un sistema consolidato nel corso degli ultimi tre decenni. Nella consapevolezza che fermare la riforma rappresenta solo un primo passo: la strada verso la costruzione di una cultura politica capace di gestire le sfide del presente e promuovere con convinzione l’interesse nazionale in campo economico, politico, strategico sarà molto lunga. Come scriveva l’Osservatorio nel suo appello per la Festa della Repubblica, “in Italia si sente più forte che mai il richiamo a un pieno rinnovamento del patto repubblicano, incardinato sulla Costituzione e che necessita di una solida e coerente religione civile, a cui debba conformarsi l’azione organica dello Stato, dei suoi poteri e della sua classe dirigente. A una politica che sappia voler dire “realizzazione”, per parafrasare un celebre detto di Alcide de Gasperi. Realizzazione di uno Stato organico, coeso, in cui la stessa politica non abbia il timore di ribadire il suo primato nell’azione legislativa ed esecutiva ma al tempo stesso rifugga dalla tentazione di un utilizzo partigiano e fazioso delle cariche e degli apparati dello Stato”. Perché ciò accada, esiste riportare il Parlamento al centro del dibattito. E ribaltare l’idea secondo cui la democrazia sarebbe un costo nella concezione che essa rappresenta l’investimento capace di garantire il più fruttuoso dei dividendi: un popolo sovrano in un Paese sovrano.

L'articolo La democrazia non è un costo proviene da Osservatorio Globalizzazione.

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