• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Europa > Quel lontano ricordo delle aspirazioni laiche turche

Quel lontano ricordo delle aspirazioni laiche turche

erdogan2

Storicamente la Turchia ha sempre rappresentato una sorta di trait d’union tra il mondo occidentale e quello islamico. L’opera riformatrice avviata dal padre della patria Mustafa Kemal Atatürk fin dalla sua fondazione, avvenuta in seguito alla disgregazione dell’Impero Ottomano, ne aveva fatto uno Stato a forte vocazione occidentale pur mantenendo l’Islam come religione di Stato. Naturalmente perché ciò fosse possibile il primo principio da importare dall’occidente doveva necessariamente essere quello della laicità, e infatti la Turchia si è sempre distinta dal resto dei paesi musulmani per la limitazione delle ingerenze religiose in politica, per i diritti concessi alle donne, il suffragio universale, la depenalizzazione dell’omosessualità. Altre riforme sono state chieste alla Turchia dall’Unione Europea in seguito alla sua richiesta di entrare a farne parte tra cui l’abolizione della pena di morte e la concessione di diritti alle minoranze etniche, principalmente quella curda.

Da diversi anni questo processo si è invertito, i venti islamisti soffiano non solo sulle sabbie mediorientali e magrebine ma anche sull’altopiano anatolico. Con l’ascesa politica di Recep Tayyip Erdoğan, dapprima leader e premier del partito di maggioranza AKP e adesso presidente della Repubblica, la Turchia sembra aver distolto almeno in parte il suo sguardo dalle laiche democrazie occidentali per rivolgerlo alle vicine teocrazie islamiche, con buona pace dei traguardi laici raggiunti finora che avevano fatto ritenere effettivamente possibile la coniugazione tra Islam e secolarizzazione. Del resto come può un partito dichiaratamente confessionale, che governa una nazione in cui l’Islam è religione di Stato, schierarsi a difesa dei diritti umani senza tradire la propria identità? Ci sarebbe un’evidente contraddizione, prima o poi i nodi verrebbero al pettine e in Turchia il pettine si è fermato recentemente proprio sul nodo che ci riguarda più da vicino: quello dell’irreligiosità.

Ateizm Derneği (che in turco significa Società dell’Ateismo) è la prima associazione di non credenti turchi costituitasi meno di un anno fa. In realtà il primato dell’associazione si estende non solo alla Turchia ma a tutto il mondo islamico in generale dove è semplicemente impensabile che dei non credenti possano essere in qualche modo riconosciuti pubblicamente. Talmente impensabile che perfino nell’occidentalista Turchia un tribunale civile ha adesso disposto il blocco dell’accesso al sito web dell’associazione facendo riferimento all’articolo 216 del codice penale che vieta “l’incitamento all’odio, all’inimicizia o all’umiliazione”.

Non siamo ai livelli di fondamentalismo raggiunti ad esempio in Arabia Saudita, dove l’ateismo viene equiparato per legge al terrorismo e chi critica l’Islam come Raif Badawi viene condannato a mille frustate (a tal proposito si segnala una petizione su Avaaz rivolta dalla moglie di Badawi al vice Cancelliere tedesco Gabriel), ma la direzione sembra più o meno quella tant’è che proprio Erdoğan si è in passato riferito all’ateismo come terrorismo. A darne notizia è stata la stessa associazione attraverso un comunicato, diffuso tramite la suapagina Facebook ma anche attraverso il suo sito (che al momento in cui scrivo risulta accessibile semplicemente rimuovendo il prefisso www), dove tra le altre cose si denuncia la pericolosa convergenza in Turchia dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.

E pensare che subito dopo la sua costituzione Ateizm Derneği aveva ottenuto un importante riconoscimento, orgogliosamente e giustamente annunciato in homepage anche in inglese, essendo stata invitata a partecipare a una tavola rotonda organizzata dalla delegazione turca presso l’Unione Europea e parallelamente anche a una sessione della Freedom of Belief Initiative Conference. Non a caso proprio l’articolo 216 del codice penale turco era stato centrale nell’intervento di Morgan Elizabeth Romano, vice presidente dell’associazione, in quanto utilizzato spesso come strumento per incriminare chiunque critichi l’Islam o propagandi idee ateiste, in particolare il terzo comma che recita: “Chiunque denigri apertamente i valori religiosi di una parte della popolazione dev’essere condannato a una pena detentiva da sei mesi a un anno qualora l’atto sia sufficientemente pregiudizievole alla quiete pubblica”. Naturalmente (si fa per dire) non c’è nessuna tutela della denigrazione degli atei a controbilanciamento.

Nel rapporto redatto e presentato nell’occasione l’associazione ha elencato in dettaglio vari casi di non credenti perseguiti in Turchia con motivazioni pretestuose come pubblicazione o traduzione di opere sull’ateismo, commenti di vario genere, semplici retweet e altre cose simili. Ma ha anche fatto il punto sulla pericolosa avanzata dell’islamismo e sulla corrispondente retromarcia innestata dal paese in tema di diritti civili. I delitti d’onore sono cresciuti di ben 14 volte negli ultimi sette anni, un terzo delle donne che si sposano sono bambine e gli atti di violenza contro le donne sono aumentati del 400% da una dozzina d’anni a questa parte. Proprio in questi giorni i turchi sono scesi in piazza contro la violenza di genere in una manifestazione che vedeva uomini indossare delle minigonne e puntare il dito sul partito di governo.

 

L’unica vera libertà d’espressione rimasta è quella di accondiscendenza al regime, che non sarà tale da un punto di vista formale ma lo è senza dubbio di fatto. Sono almeno 57 i giornalisti attualmente in carcere e quasi 68 mila i siti web oscurati a oggi. Significativo il recente blocco del sito ufficiale di Charlie Hebdo non tanto per quello che rappresenta dall’attentato parigino di due mesi fa, del resto è quasi ovvio che un sito del genere venga oscurato in una nazione dichiaratamente islamica, quanto per il fatto che il premier turco Davutoğlu ha partecipato a quel corteo in cui i leader politici mondiali hanno manifestato per la libertà d’espressione. Quando si dice “da che pulpito”.

Massimo Maiurana

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità